La
sindrome da mobbing
di
Pierguido Soprani,magistrato
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Si
verifica una situazione di mobbing quando un dipendente è
oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori e, in
particolare, quando vengono poste in essere pratiche dirette
ad isolarlo dall'ambiente di lavoro o ad espellerlo con la
conseguenza di intaccare gravemente l'equilibrio psichico
dello stesso, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia
in se stesso e provocando catastrofe
emotiva, depressione e
talora persino il suicidio. La responsabilità del datore di
lavoro deriva dall'art. 2087 c.c. che impone di adottare le
misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la
personalità morale dei lavoratori.
Il
mobbing è un fenomeno patologico che può essere riguardato
da molti punti di vista.
Tralasciamo, in questa sede, l'analisi della valenza sociale
del fenomeno, che peraltro bene è espressa in una recente
pronuncia del Tribunale di Torino (sez. lavoro, 16 novembre
1999 (ud. 6/10/99), n. 5050 - Est. Ciocchetti - Parti:
Erriquez c. Ergom Materie Plastiche s.p.a.., ove si afferma che
si verifica una situazione di mobbing aziendale
(1)
"allorché il dipendente è oggetto ripetuto di
soprusi da parte dei superiori e, in particolare, vengono
poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette ad
isolarlo dall'ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad
espellerlo; pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente
l'equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità
lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando catastrofe
emotiva, depressione e talora persino suicidio", per
soffermarci sulle considerazioni inerenti al rilievo che, in
ambito giuridico penale, possono assumere le condotte di
mobbing.
Se, in termini civilistici, l'incidenza del mobbing sul
contratto di lavoro deriva dalla violazione di quella norma
-l'art. 2087 c.c.- che si assume contrattualizzata
indipendentemente da una specifica previsione delle parti, e
che genera una responsabilità, in capo al datore di lavoro,
di risarcire il danno sia al patrimonio professionale (c.d.
danno da dequalificazione), sia alla personalità morale e
alla salute latamente intesa (cosiddetto danno biologico e
neurobiologico) subiti dal lavoratore, essendo indubbio che
l'obbligo previsto dalla disposizione contenuta nell'art. 2087
c.c. "non è circoscritto al rispetto della
legislazione tipica della prevenzione, bensì (come emerge
dall'interpretazione della norma in aderenza ai principi
costituzionali e comunitari) implica altresì il dovere di
astenersi da comportamenti lesivi dell'integrità psicofisica
del lavoratore" (Cass. civ., sez. lav., 17 luglio
1995, n. 7768, Rossi e altro c. Felici), resta nondimeno il
problema di come -ed in che termini- qualificare l'eventuale
disvalore e rilevanza penale del mobbing.
Una prima riflessione sembrerebbe indurre ad una risposta
certa e lapidaria: fino a che il lavoratore mobbizzato non si
ammali di mobbing, la tutela di ambito penalistico non ha una
concreta praticabilità: ciò in quanto la legislazione
vigente non prevede alcuna ipotesi contravvenzionale a carico
del datore di lavoro, per le condotte di vessazione morale e
di dequalificazione professionale da lui tenute nell'ambiente
di lavoro in danno del lavoratore.
Ciò nonostante, si possono anche svolgere considerazioni
diverse. Si valuti infatti, come dato acquisito dalla
letteratura scientifica sull'argomento, che il lavoratore
mobbizzato perde gradatamente la stima professionale di sé e
la motivazione al lavoro nel contesto socio-ambientale di
riferimento: egli dunque, anche se non traduce l'aggressione
alla sfera psichica in una menomazione della propria integrità
psicofisica, vede in ogni caso compromessa la sua capacità di
autoprotezione personale, che è una delle componenti
essenziali per dar vita ad un efficace sistema di sicurezza
sul lavoro.
Del resto, secondo la condivisibile valutazione espressa
dall'11° Commissione permanente del Senato (Commissione
SMURAGLIA), nell'indagine conoscitiva sulla sicurezza e
l'igiene del lavoro depositata in data 22 luglio 1997, la
tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori dipende
"dal coincidere di due condizioni indispensabili ma di
per sè non sufficienti: "che l'ambiente, le macchine e
gli impianti siano sicuri e che il comportamento dei
lavoratori sia conforme alle esigenze di sicurezza"".
Verificandosi una situazione di mobbing aziendale, si potrebbe
perciò determinare ma in concreto ciò deve essere
naturalmente oggetto di accertamento, non ponendosi in termini
di automatica conseguenzialità- una situazione in antitesi
con la previsione generale contenuta nell'art. 5, comma 1 del
D.Lgs. n. 626/1994, la quale stabilisce che "ciascun
lavoratore deve prendersi cura della propria sicurezza e della
propria salute e di quella delle altre persone presenti sul
luogo di lavoro, su cui possono ricadere gli effetti delle sue
azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione ed alle
istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro".
Ciò tanto più considerando che, diversamente dalla
legislazione emanata negli anni '50 (il D.P.R. n. 547/1955, il
D.P.R. n. 164/1956, il D.P.R. n. 303/1956, per citare i
provvedimenti più significativi), il D.Lgs. n. 626/1994,
quale prima normativa generale di derivazione comunitaria, ha
introdotto un nuovo modello di impresa sicura che appare non
solo di tipo compartecipativo, ma modulato in chiave
decisamente sinergica tra i protagonisti del mondo del lavoro
(datore di lavoro e lavoratori), per il raggiungimento del
fine generale -comune ad entrambi- di migliorare la sicurezza
e l'igiene in un ambiente -quello di lavoro- parimenti comune.
E' dunque difficile ipotizzare che il lavoratore mobbizzato
possa farsi parte diligente della propria e dell'altrui
sicurezza, svolgendo compiutamente quel ruolo di garanzia
attiva che il citato art. 5 del D.Lgs. n. 626/1994 assegna a
ciascun lavoratore. Infatti, se pur i lavoratori, nell'ambito
dell'azienda, sono gli unici soggetti creditori di sicurezza e
di salute, ciò nonostante, come dispone l'art. 5, comma 2,
lettera h) del D.Lgs. n. 626/1994, sono chiamati anch'essi a
contribuire "insieme al datore di lavoro, ai dirigenti
e ai preposti, all'adempimento di tutti gli obblighi imposti
dall'autorità competente o comunque necessari per tutelare la
sicurezza e la salute dei lavoratori durante il lavoro".
Si pensi inoltre al lavoro di squadra a fini prevenzionistici
(ad esempio, antincendio), o al lavoro in staff, sempre
più praticato per il conseguimento di quel valore aggiunto,
in termini operativi, che deriva dalla condivisione delle
procedure e degli obiettivi di lavoro.
E -si badi- in tale prospettiva sinergica, il contributo
richiesto dal citato art. 5, comma 2, lettera h) del D.Lgs. n.
626/1994 è sanzionato penalmente in caso di omissione.
Ma -qui lo spunto di riflessione- sarebbe davvero paradossale
imputare sul piano giuridico, al lavoratore mobbizzato, le
conseguenze di ciò che lui stesso subisce sul piano
materiale, per effetto della condotta di vessazione morale e
psichica cui è soggetto da parte delle gerarchie aziendali.
Peraltro, a fronte della qualificazione soggettiva dell'agente
("lavoratore"), delineata dalla norma
dell'art. 5 del D.Lgs. n. 626/1994 qui all'esame, e dalla
caratterizzazione delle violazioni alla normativa
prevenzionistica e di igiene del lavoro quali reati propri, la
conseguenza che ne deve obbligatoriamente trarre l'interprete
è che nessuna contestazione, sul piano del diritto penale
contravvenzionale, è ascrivibile al datore di lavoro.
Quid iuris, invece, nel caso in cui la condotta di
mobbing incida negativamente, menomandola, sull'integrità
psicofisica del lavoratore? La risposta del giurista è
perentoria: non vi è dubbio che, nel caso in cui il
lavoratore mobbizzato veda compromessa -temporaneamente o con
postumi permanentemente invalidanti- la propria salute, della
lesione all'integrità psicofisica può e deve essere chiamato
a rispondere a pieno titolo, nella sede penale, il datore di
lavoro.
Ma quale, in questo caso, la norma giuridica di riferimento?
Per poter rispondere a questo interrogativo occorre valutare,
caso per caso, quale sia stata l'intenzione del datore di
lavoro. E, a questo riguardo, non si può prescindere da una
operazione preliminare sul piano del metodo: quella di
diversificare l'analisi in relazione al profilo soggettivo di
imputazione del fatto.
Infatti, per la sussistenza di un reato, non è sufficiente la
positiva verifica dell'elemento oggettivo (nei suoi aspetti di
condotta, evento, nesso di causalità), ma è altresì
necessario analizzare il modo con cui si è espressa la volontà
del soggetto che ha agito, elemento questo che si definisce
quale elemento soggettivo, e che consiste sempre in un
atteggiamento della volontà in contrasto con la previsione di
una norma giuridica.
In relazione alla valutazione dell'elemento soggettivo (o
psicologico), i reati si suddividono in due aree principali:
reati colposi e reati dolosi. E la necessità di distinguere
l'area delle condotte colpose dall'area delle condotte
ascrivibili a titolo di dolo si pone sempre per quei reati che
sono puniti indifferentemente sia a titolo di dolo, che a
titolo di colpa. E' questo proprio il caso dei reati di
lesioni personali e di omicidio, puniti rispettivamente a
titolo di dolo dagli artt. 582 e 575 del Codice penale, e a
titolo di colpa dagli artt. 590 e 589 stesso Codice.
Se il dolo, quale forma tipica della volontà colpevole,
presuppone nell'agente la coscienza e la volontà sia della
condotta che dell'evento (il soggetto attivo del reato deve
dunque rappresentarsi (prevedere) e volere l'evento come scopo
e conseguenza della sua condotta), nella colpa la coscienza e
volontà del reo sono limitate alla condotta, non all'evento.
Il soggetto che agisce, quand'anche possa in alcuni casi
prevedere l'evento (ad esempio il lanciatore di coltelli
rispetto alla morte o al ferimento della sua partner), non lo
vuole assolutamente (e se lo prevede confida comunque che esso
non si verificherà in virtù delle proprie capacità
personali), e questo dunque si verifica o per negligenza,
imprudenza, imperizia (cosiddetta colpa generica), ovvero per
l'inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline
(cosiddetta colpa specifica).
Trasponendo questi principi di diritto penale al mobbing
aziendale, si tratta conseguenzialmente di valutare
(cosiddetto solving problem) se la compromissione
dell'integrità psicofisica del lavoratore sia riconducibile
ad una condotta colposa del datore di lavoro, ovvero ad una
condotta dolosa, intenzionalmente e consapevolmente orientata
a produrre quel danno in capo al prestatore di lavoro.
In che modo dunque orientare l'accertamento della
responsabilità; e in base a quali criteri sciogliere il nodo
valutativo inerente all'imputazione soggettiva (colposa o
dolosa) del fatto di reato?
In base alle indicazioni della Giurisprudenza (Cass. pen.,
sez. I, 28 gennaio 1991, Caporaso), il criterio di imputazione
della responsabilità non può prescindere dall'analisi delle
modalità estrinseche di concreta manifestazione della
condotta criminosa, e da un'attenta valutazione di ogni
profilo circostanziale del fatto. La prova della natura dolosa
o colposa del reato deve dunque trarsi complessivamente sia
dalla condotta dell'imputato, sia dalle circostanze di fatto
che concorrono a costituire l'azione criminosa, e nelle quali
si riverbera la coscienza e l'atteggiamento della volontà
dell'agente.
Sono dunque essenzialmente gli elementi obiettivi del fatto, e
le espressioni concrete della condotta dell'agente ad
orientare nella valutazione dell'elemento soggettivo del
reato. A ciò possono aggiungersi, con funzione meramente
sussidiaria, ulteriori elementi di carattere soggettivo, quali
la dichiarata motivazione della condotta dell'agente, ovvero
le sue stesse affermazioni che trovino adeguata e convincente
corrispondenza nelle emergenze processuali (Cass. pen., 12
gennaio 1989, Calò).
L'applicazione di questi criteri al contesto situazionale che
dà origine e contenuto al mobbing aziendale, porta a ritenere
che l'area della colpa investa -in misura residuale- solo
quelle situazioni di aggressione alla sfera morale e psichica
del lavoratore cui si possa riconoscere una matrice
inconsapevole, nel senso che esse si devono sostanziare in
condotte in relazione alle quali il datore di lavoro sia in
grado di offrire una giustificazione motivazionale compatibile
con profili gestionali del modello di organizzazione del
lavoro in azienda.
In ogni altra situazione in alcun modo connessa o non
ragionevolmente riconducibile, nelle intenzioni e nelle
motivazioni di chi l'ha determinata (datore di lavoro, vertici
aziendali o altri lavoratori), ad ambiti gestionali ed
organizzativi, il criterio di imputazione soggettiva della
responsabilità per le lesioni dell'integrità psicofisica del
lavoratore dovrà essere quello del dolo:
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sia
nella forma tipica diretta o intenzionale (nella quale
l'agente -datore di lavoro o altri- deve essersi
rappresentato l'evento del reato come scopo e conseguenza
della sua condotta);
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sia
in quella residuale c.d. indiretta od eventuale (la quale
si configurerà ogniqualvolta l'agente, ponendo in essere
la condotta di mobbing, seppur diretta ad altri scopi che
non quello di ledere l'integrità psicofisica del
lavoratore, si rappresenti la concreta possibilità del
verificarsi di tale conseguenza, ulteriore rispetto alla
propria azione e, nonostante ciò, agisca accettando il
rischio di cagionarla: tra le tante si veda Cass. pen.,
sez. I, 12 novembre 1997, n. 6358, Tair).(2)
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|
Con
riguardo poi a tutte quelle condotte che abbiano di per se
stesse autonomo rilievo penale (ad es. molestie sessuali;
reiterate ingiurie o minacce), e che determinino la lesione
anche solo della personalità morale del lavoratore (la quale
è componente costitutiva dell'integrità psicofisica: in tal
senso, sia pure incidentalmente, Cass. sez. lavoro, 8 gennaio
2000, n. 143, Ric. Filonardi c. HENKEL S.p.A), il problema
della valutazione soggettiva dell'evento (mobbing doloso o
colposo) si pone negli stessi termini di cui sopra, con la
sola variante che, se il mobbing colposo deriva, quale
conseguenza non voluta dal colpevole, da "un fatto
preveduto come delitto doloso", è previsto un
aggravamento fino ad un terzo della pena stabilita per i reati
di lesioni colpose e di omicidio colposo (art. 586 c.p.).
Al reato di lesioni (colpose o dolose) saranno poi applicabili
-nei limiti della loro compatibilità con le caratteristiche
del fenomeno- le circostanze aggravanti di cui all'art. 583
del Codice penale (si pensi all'ipotesi di un esaurimento
nervoso o di uno stato depressivo prolungato nel tempo,
finanche cronicizzato).(3)
Quanto al caso in cui il datore di lavoro determini o rafforzi
per colpa nel lavoratore mobbizzato, con la sua condotta
reiteratamente vessatoria e/o ingiustificatamente
discriminatoria e di emarginazione, una propensione
suicidiaria, egli potrebbe esserne chiamato a rispondere a
titolo di omicidio colposo (art. 589 CP).(4)
Parimenti contestabili saranno i profili di colpa specifica
derivanti dalla violazione di norme di legge (ad es. l'art.
2103 c.c., in tema di divieto di dequalificazione mansionale
del lavoratore)(5);
la violazione di norme di tutela prevenzionistica (ad es.
l'art. 2087 c.c., o l'art. 3, comma 1, lett. s) del D.Lgs. n.
626/94), comporterà inoltre la contestazione delle specifiche
aggravanti previste dagli articoli 589, comma 2 e 590, comma 3
del Codice penale.
Analizzati i criteri per l'imputazione soggettiva dei reati di
lesioni e di omicidio a carico del mobber (e di ogni eventuale
altro soggetto con lui concorrente nel reato, che cioè non si
limiti a rimanere -quale spettatore silenzioso- nell'area
penalmente indifferente del cosiddetto "side mobbing"(6),
o ad eseguire ordini di lavoro non di per se stessi penalmente
perseguibili), va detto che i profili contravvenzionali
ordinari di violazione della normativa prevenzionistica e di
igiene del lavoro (ad esempio, in tema di ergonomia, o di
idoneità del posto di lavoro, o di riduzione del lavoro
monotono e ripetitivo, ecc.) mantengono il loro autonomo
disvalore e rilevanza penale, e non possono ritenersi in alcun
modo assorbiti nella vicenda di mobbing. Ad essi sarà
applicabile, secondo i principi, il meccanismo procedurale
sanzionatorio delineato dal D.Lgs. n. 758/94.
Da ultimo va segnalato che il mobbing, quale fenomeno che
investe la realtà dell'organizzazione aziendale, e che tutela
la personalità morale e il patrimonio professionale del
lavoratore, ancor prima che la sua integrità psicofisica
strettamente intesa, può investire anche categorie di
lavoratori che non sono soggetti ad una subordinazione
tecnico-giuridica di tipo convenzionale (ad es. i dirigenti).
Nè, al fine di escludere il nesso di causalità tra mobbing e
malattia (per la preesistenza di una causa efficiente
autonoma, capace da sola di generare l'evento lesivo), possono
assumere rilievo giuridico eventuali fattori di
ipersuscettibilità individuale del lavoratore a situazioni di
prolungato stress emozionale, giacchè -correttamente rileva
sul punto il Tribunale di Torino(7).
"La Carta Costituzionale, nel suo art. 32, e la legge
ordinaria, nell'art. 2087 cc, tutelano infatti tutti
indistintamente i cittadini, siano essi forti e capaci di
resistere alle prevaricazioni o siano viceversa più deboli e
quindi destinati anzitempo a soccombere"(8).
La "sindrome da mobbing" è un male sociale
sempre esistito, ma che solo da poco tempo si è posto
all'attenzione di sociologi, psicologi del lavoro, psichiatri,
e anche della Magistratura(9).
Essa nulla ha a che fare col cosiddetto
"Fantozzismo", giacchè spesso colpisce lavoratori
preparati e capaci, ma -ciò nonostante- vittime di
discriminazioni e di terrorismo psicologico sul luogo di
lavoro.
Malattia professionale è anche quella psicologica, e
l'esigenza di proteggere la persona sul luogo di lavoro assume
una dimensione sociale non solo in termini solidaristici, ma
anche sotto il profilo etico e morale.
Al momento attuale cinque sono le proposte di legge sul
mobbing giacenti in Parlamento(10):
nel rimandare all'iniziativa del legislatore l'aspettativa di
un'efficace regolamentazione, è certo che una progressiva
crescente consapevolezza dell'esistenza del fenomeno può
contribuire a ridurre la naturale propensione del lavoratore
mobbizzato ad autocolpevolizzarsi (inducendosi la cosiddetta
"mentalità da capro espiatorio"); e fungere
al tempo stesso -più che l'opera di repressione penale
attuata dalla Magistratura- quale volano di prevenzione, con
efficacia dissuasiva, per la categoria -affollattissima di
presenze- dei mobbers "potenziali".
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