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REPUBBLICA ITALIANA pronuncia la seguente S E N T E N Z A nella causa iscritta al n. 5747 R.G.L. 1999, promossa da: ERRIQUEZ Giacomina, rappresentata e difesa dall’avv. Maria Braggion (domiciliataria), del Foro di Torino PARTE RICORRENTE CONTRO ERGOM MATERIE PLASTICHE S.p.A., in persona del presidente, rappresentata e difesa dagli avv.ti Marco Sertorio e Laura Di Braccio (domiciliatari), entrambi del Foro di Torino PARTE CONVENUTA SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso depositato nella cancelleria della Pretura di Ciriè in data 18 settembre 1998 e riassegnato a questo ufficio il 18 giugno 1999, la sig.ra Erriquez Giacomina, dipendente della S.p.A. Ergom Materie Plastiche dal 7.5.1996 al 20.12.1996, chiede al giudice del lavoro di condannare tale società a risarcirle il danno biologico (e neurobiologico) patito, imputabile a fatto e colpa del datore, in misura pari a L. 39.150.000= ovvero in quella diversa somma in corso di causa accertata. A fondamento di tale domanda osserva quanto segue :
Parte convenuta si costituisce in giudizio e contesta la pretesa azionata in causa, ritenendola destituita di fondamento. Osserva in particolare quanto segue :
Fallita la conciliazione, il giudice dà corso all’istruttoria, interrogando le parti ed escutendo i testi. All’esito di ciò, la causa viene discussa dai patroni delle parti. In tale sede la difesa della ricorrente ribadisce l’istanza, già formulata in corso di causa, di consulenza medico-legale, al fine di chiarire eziologia, natura e gravità della patologia dalla medesima lamentata. La difesa della convenuta ribadisce a sua volta la propria opposizione a tale richiesta, non potendo la Ctu avere funzione esplorativa, di accertare cioè dati non altrimenti acquisiti al giudizio, ma semplicemente quella di valutare, con l’ausilio di una particolare disciplina tecnica, elementi di fatto già certificati dalle carte processuali. Dopo la discussione orale, la vertenza viene infine decisa, come da dispositivo trascritto in calce alla presente sentenza, di cui il giudice dà pronta lettura alle parti.
1. Sul mobbing in azienda. Prima di addentrarci nell’esame delle questioni specifiche di causa, occorre dare conto – ai sensi del 2° comma dell’art. 115 cpc e, quindi, nel quadro delle circostanze appartenenti al "fatto notorio", "acquisito alle conoscenze della collettività in modo da non esigere dimostrazione alcuna in giudizio" – di alcuni profili direttamente evocati dalla vicenda prospettata in ricorso. Da alcuni anni gli psicologi, gli psichiatri, i medici del lavoro, i sociologi e più in generale coloro che si occupano di studiare il sistema gerarchico esistente in fabbrica o negli uffici ed i suoi riflessi sulla vita del lavoratore, ne hanno individuato alcune gravi e reiterate distorsioni, capaci di incidere pesantemente sulla salute individuale. Si tratta di un fenomeno ormai internazionalmente noto come mobbing. Il termine, proveniente dalla lingua inglese e dal verbo to mob [attaccare, assalire] e mediato dall’etologia, si riferisce al comportamento di alcune specie animali, solite circondare minacciosamente un membro del gruppo per allontanarlo. Spesso nelle aziende accade qualcosa di simile, allorché il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori e, in particolare, vengono poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette ad isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora persino suicidio. Il fenomeno ha ormai assunto, a seguito delle denunce di numerosi esperti di settore (medici, sociologi ecc.) e delle stesse vittime, proporzioni senza dubbio rilevanti, così da coinvolgere, secondo la stima di un autorevole settimanale francese, in ogni paese europeo, percentuali non indifferenti di lavoratori (v. oltre, Tavola I). In base a tale stima, oltre il 4% dell’intera forza lavoro occupata in Italia è attualmente oggetto di pratiche di mobbing. Inoltre, secondo il Centro di disadattamento della prestigiosa Clinica del lavoro "Luigi Devoto" di Milano, che al tema del mobbing a fine febbraio 1999 ha dedicato un seminario nazionale, ogni dipendente ha il 25% di possibilità di trovarsi, nel corso della propria esperienza professionale, in tali condizioni, mentre il 10% dei casi di suicidio presenta come concausa una situazione di terrorismo psicologico sul posto di lavoro. * * * 2. Sulla richiesta di Ctu medico-legale. Fatta questa doverosa premessa, assolutamente indispensabile al fine di inquadrare correttamente le problematiche di causa nel contesto lavorativo e nel sistema di relazioni endo-aziendali attualmente esistenti, i quale conoscono e registrano con una certa frequenza pratiche di violenza morale e di terrorismo nei posti di lavoro, passiamo ad esaminare il caso oggetto di causa. In sede di discussione finale della vertenza la difesa della ricorrente ribadisce l’istanza, già formulata in corso di causa, di consulenza medico-legale, al fine di chiarire eziologia, natura e gravità della patologia dalla medesima lamentata. Il patrono della convenuta ribadisce a sua volta la propria opposizione a tale richiesta, non potendo la Ctu avere funzione esplorativa e cioè di accertare dati non altrimenti acquisiti al giudizio, ma semplicemente quella di valutare, con l’ausilio di una particolare disciplina tecnica, elementi di fatto già certificati dalle carte processuali. Ad avviso del giudice non vi è ragione di prendere posizione su tale questione controversa, essendo l’accertamento peritale richiesto, nel caso in esame, del tutto superfluo. Gli elementi raccolti in sede istruttoria, come si vedrà più oltre, risultano infatti di portata tale da consentire la definizione di ogni profilo della vertenza, sia per quanto concerne la sussistenza del fatto lamentato dalla lavoratrice sia per ciò che attiene all’entità del danno patito, che esige ristoro. * * * 3. Sui fatti di causa. L’istruttoria esperita in corso di causa ha consentito di accertare che la ricorrente è stata investita, nel corso del suo breve rapporto di lavoro con la società convenuta, durato complessivamente 8 mesi (da maggio a dicembre 1996), da un’autentica catastrofe emotiva e, in pari tempo, che è stata colpita da sindrome ansioso depressiva reattiva, con frequenti crisi di pianto, vertigini, senso di soffocamento, tendenza all’isolamento, sindrome protrattasi per numerosi mesi, a partire da giugno 1996, e risoltasi solo nell’agosto 1998, dopo un primo miglioramento registratosi in concomitanza con la cessazione della collaborazione. Di ciò fanno fede, in modo assolutamente convergente, le deposizioni degli stretti congiunti della lavoratrice e di una collega di lavoro del tempo nonché le dichiarazioni e certificazioni in atti del medico di base e di due neurologi che all’epoca l’hanno visitata; dalle quali emerge anche che la lavoratrice non ha mai sofferto in antecedenza di tali disturbi e stati patologici e che fino al periodo sopra citato la sua vita, anche in ambito familiare e segnatamente nei rapporti con il marito ed i due giovani figli, è stata serena e si è svolta in modo del tutto normale e regolare. L’istruttoria ha nel contempo consentito di acclarare che durante l’intercorso rapporto lavorativo con la società convenuta la ricorrente è stata oggetto di gravi atti di persecuzione da parte del suo diretto superiore, il capo turno sig. Dumas. Oltre a molestarla sul piano sessuale, il superiore l’ha infatti stabilmente collocata ad una macchina, la 140, chiusa tra altre macchine ed i cassoni di lavorazione, così da impedirle possibili contatti, durante l’orario di lavoro, con i colleghi e le colleghe o da renderli assai difficili ed infrequenti. Il superiore – noto nell’ambiente lavorativo per il contegno abitualmente irritante e arrogante e per il linguaggio incivile ed offensivo di cui è solito fare uso e, in quanto tale, segnalato dalla RSU alla direzione aziendale per le necessarie iniziative del caso – ha inoltre tenuto nei confronti della ricorrente, ripetutamente, specie in occasione delle doglianze relative alla mancata rotazione sulla macchina 140 o anche di semplici richieste di intervento per guasti meccanici alla stessa, un comportamento offensivo e violento, sul piano verbale. Orbene, sulla base di tale accertamento può ritenersi fornita la prova del nesso di causalità tra la patologia insorta improvvisamente nella lavoratrice e l’ambiente di lavoro. Del che deve indubbiamente essere chiamato a rispondere il datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 cc, essendo questi tenuto a garantire l’integrità fisio-psichica dei propri dipendenti e, quindi, ad impedire e scoraggiare con efficacia contegni aggressivi e vessatori da parte di preposti e responsabili, nei confronti dei rispettivi sottoposti. Per completezza di motivazione va dato atto, a questo punto, di quanto sostenuto dalla difesa della società convenuta nel corso della discussione finale della vertenza, al fine di ottenere una pronuncia di rigetto della domanda azionata in giudizio. E cioè che l’evento lamentato dalla lavoratrice in ricorso, ove realmente provato in causa e correlabile alle condizioni di lavoro, non potrebbe comunque essere giuridicamente addebitato al datore, per i seguenti tre ordini di motivi :
L’assunto sub a), afferente il rispetto della normativa, è del tutto privo di fondamento. Dalle deposizioni dei testi escussi emerge infatti che la zona prospiciente la macchia 140 era costantemente occupata da materiale e cassoni di lavorazione; conseguentemente lo spazio vitale a disposizione della lavoratrice era assoluta-mente carente, in violazione del requisito di "sufficienza" prescritto dalla lett. a), par. 2, Allegato VII al D. L.vo 19 settembre 1994, n. 626. Del pari infondato è il rilievo sub b), concernente la mancata segnalazione dei fatti di causa al datore. Il teste Ruberto, rappresentante sindacale dal 1990, ha infatti dichiarato quanto segue : "Nella mia qualità di rappresentante della sicurezza dei lavoratori (RSL) avevo a suo tempo posto il problema della ristrettezza dello spazio tra la 140 e la macchina retrostante. Questo tipo di questione l’avevo già posto prima dell’inizio del rapporto di lavoro della ricorrente e mi è capitato di porlo più volte. A quell’epoca io ero già rappresentante della sicurezza lavoro. La ragione per la quale ho avanzato la questione dello spazio tra la 140 e la macchina retrostante, è legato al fatto che in tale spazio erano presenti : pedane, stampi macchina, cassoni. Nel periodo di lavoro della ricorrente alla 140, tra la 140 e la macchina retrostante, vi erano in particolare un cassone collocato dietro l’operatore per mettere gli scarti di lavorazione, due [cassoni] davanti all’operatore : uno per il semilavorato e l’altro per il prodotto costampato e cioè di lavorazione finita. […] Ho fatto presente la situazione di ristrettezza dello spazio tra la 140 e l’altra macchina e l’ingombro della zona di lavorazione dell’operatore, direttamente al capo turno, sig. Dumas. Ho fatto presente questa questione al sig. Dumas una decina di volte circa. […] Alle mie segnalazioni, il sig. Dumas rispondeva a volte recandosi in loco e togliendo ad esempio un cassone, in modo tale da avere il passaggio un po’ più libero. Altre volte mi rispondeva dicendo che lo spazio era quello." A sua volta il teste Ribatto ha riferito ciò che segue : "All’epoca del rapporto di lavoro della ricorrente io ero delegato sindacale e lamentele sulla 140 ne sentivo parecchie. […] Ho fatto presente la situazione di ristrettezza dello spazio prospiciente la 140 con i superiori. Penso con il capo reparto dell’epoca … I cassoni dei semilavorati venivano collocati all’estremità della 140 e in prossimità del corridoio in cui passano i carrelli. Le lamentele sulla ristrettezza dello spazio attorno alla 140 erano legate al fatto che c’erano cassoni ed erano lunghi m 1,20." Quanto dichiarato dal teste Ruberto è inoltre confermato, in sede testimoniale, dallo stesso capo turno sig. Dumas. Questi infatti, dopo avere in un primo tempo negato la circostanza riferita dal sig. Ruberto, asserendo "che io sappia gli RSL non si sono mai lamentati della ristrettezza dello spazio prospiciente la macchina 140", così poi si è espresso, dopo le contestazioni del giudice : "Prendo atto di quello che lei mi dice e cioè che un teste sentito oggi prima di me, il sig. Ruberto, ha riferito di avermi segnalato l’ingombro della zona di lavorazione prospiciente la macchina 140 e di avermi fatto presente tale questione una decina di volte circa. Confermo l’esattezza di quanto ha riferito il teste Ruberto. La cosa è stata segnalata non solo da lui ma anche da altri operai." Del tutto destituito di fondamento è infine quanto evidenziato sub c), in riferimento alla particolare labilità emotiva della lavoratrice e all’idoneità di tale dato, da solo, a spiegare quanto accadutole. Stando alle deposizioni, concordi in punto, dei prossimi congiunti, di una collega di lavoro dell’epoca e del medico di base, la ricorrente non ha mai manifestato, prima dei fatti di causa e anche nel corso di pregressi rapporti di lavoro, alcuna debolezza o cedevolezza sul piano emotivo e comportamentale. E, d’altra parte, secondo quanto ha chiarito la stessa dott.ssa Orsi, solo "condizioni lavorative particolarmente disagevoli" possono determinare in soggetti con dati della personalità simili a quelli della ricorrente sindrome di tipo depressivo, riscontrabile, alla lunga, anche in individui con tratti differenti del carattere. Nel caso in esame non è conseguentemente prospettabile – in riferimento alla previsione di cui ai commi 2° e 3°, dell’art. 41 cp e argomentando da essa – un’ipotesi di esclusione del nesso di causalità, per la preesistenza di causa efficiente autonoma, capace da sola di generare l’evento lesivo. A ciò aggiungasi che se, come vittima dell’altrui sopruso, la lavoratrice ha reagito con profondo turbamento, così profondo da determinare l’insorgenza di una sindrome depressiva reattiva, ciò è cosa che non modifica né la realtà della prevaricazione né la sua posizione di persona offesa da essa. La costituzione, nel suo art. 32, e la legge, nell’art. 2087 cc, tutelano infatti tutti indistintamente i cittadini, siano essi forti e capaci di resistere alle prevaricazioni siano viceversa più deboli e quindi destinati anzitempo a soccombere. * * * 4. Sul ristoro del danno patito. Accertata in base a quanto precede la sussistenza di condotte antigiuridiche produttive di danni, imputabili a fatto e colpa della società datrice di lavoro, si tratta a questo punto di determinare il quantum debeatur. In proposito va osservato che non si versa in ipotesi di invalidità permanente, essendosi la patologia insorta nella lavoratrice risolta nell’agosto 1998, dopo un primo significativo miglioramento già registratosi in concomitanza con la cessazione della collaborazione lavorativa. In rapporto a tale dato e tenuto conto del danno biologico medio tempore procurato alla ricorrente e della durata di esso, alla medesima viene equitativamente liquidato l’importo netto di L. 10.000.000=. A ciò vanno aggiunti gli interessi legali dal gennaio 1997 al saldo. Le spese di lite, liquidate in dispositivo, vengono poste a carico della parte soccombente. Considerato quanto accertato in causa, la cancelleria dovrà trasmettere copia della presente sentenza al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino, per le valutazioni e le eventuali iniziative del caso. P. Q. M. IL TRIBUNALE ORDINARIO DI TORINO IN FUNZIONE DI GIUDICE DEL LAVORO
Torino, 6 ottobre 1999. IL GIUDICE dott. Vincenzo CIOCCHETTI Sentenza n. 5050/99. Motivazione depositata in cancelleria il 16 novembre 1999. |
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