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I fastidi morali sul lavoro e il mobbing  

Che cos’è il mobbing? Lo spiega una recente sentenza della Sezione Lavoro della Cassazione: 

il mobbing è "l’aggredire la sfera psichica altrui" (sentenza n. 143 dell’8 gennaio 2000, Pres. Trezza, Rel. Prestipino, in cui le parti erano difese rispettivamente dall’avv. R. Muggia e dagli avv.ti C. Ferzi e F. Daverio). La parola inglese mobbing letteralmente vuol dire "aggressione" o simili e solo dopo è stata collegata alla psiche, per dare un’idea di violenza più sfumata attraverso il passaggio psicologico. Il caso esaminato dalla Cassazione ed emblematico nel linguaggio comune è forse più complesso, di violenza sottile e oppressiva, il classico "supplizio di Tantalo" in cui si dà fastidio con comportamenti piccoli e singolarmente irrilevanti, ma che ripetuti e ininterrotti diventano ossessivi e insopportabili. Una violenza nascosta e silenziosa, ma non meno invasiva e qualche volta anche peggiore di quella fisica; una violenza per colpire la volontà e indurre all’errore o alle dimissioni. Più che "molestia", che indica fatti già materiali e fisici, il mobbing è il "fastidio" tutto psicologico, è costituito dalle provocazioni piccole o piccolissime che alla fine rendono la vita impossibile e fanno sbagliare.

     La parola forse è nuova, ma il caso è vecchio; i giochi psicologici si rinnovano in continuazione, ma la tecnica è sempre la stessa. Tornano in mente i casi da archeologia, ma appena successivi allo Statuto dei lavoratori del 1970, quando ad esempio si facevano i trasferimenti ai "reparti-confino", che formalmente erano negli stessi locali ma che di fatto portavano a un’emarginazione alienante. O gli ordini di "non far niente" e di stare formalmente a disposizione, seduti tutto il giorno in una scrivania magari con la faccia rivolta verso il muro o in mezzo a un corridoio nascosti fra quattro paraventi. Questi casi sono archeologia, ma la violenza nascosta continua come e più di prima. Oggi si verificano ad esempio casi di tartassamento con contestazioni disciplinari, anche per le azioni più piccole e irrilevanti, che poi non giungono a sanzione o giungono a sanzioni formalmente modeste. Se si vuole, è il vecchio problema del rilievo della violenza morale, che può essere anche peggiore di quella fisica. Ma va provata.

     Con la sentenza n. 143 del 2000 la Cassazione dà risposte precise e corrette, ma soprattutto moderne, a questo vecchio ma sempre ricorrente fenomeno, ora mobbing: la condanna è totale, forse come mai in passato, ma allo stesso tempo si confermano alcuni principi importanti. A cominciare dalla prova: è confermata la necessità di una prova rigorosa, a carico ovviamente di chi lamenta il fastidio, ma con la consapevolezza che provare un’intenzione è quasi impossibile, perché bisognerebbe guardare dentro la coscienza delle persone. La Cassazione afferma allora che, per riconoscere la rilevanza invasiva dei fastidi, è sufficiente la prova molto più semplice sia del danno che del nesso di causalità dai quei fastidi. Inoltre è sufficiente la prova di un danno non solo patrimoniale o alla salute, ma basta anche la prova del danno alla vita di relazione, del danno "biologico". L’intento persecutorio è presupposto dal danno, dalla lesione che deriva dall’intimidazione e dal disagio.

     Non è nemmeno necessario provare che il danno deriva da un’intenzione precisa, non è necessaria la prova del dolo, basta anche la semplice colpa: la lesione causata da fastidi ossessivi costituisce comunque un illecito anche se solamente colposo. E naturalmente il datore di lavoro risponde anche per il comportamento dei propri dipendenti che compiano mobbing a carico di colleghi, qualunque sia la loro posizione gerarchica, salvo rivalsa altrettanto ovvia nei confronti dei responsabili diretti.

     La Cassazione fa capire, più che dire, anche un altro punto importante e nuovo (o antico): nel valutare reazioni sbagliate o eccessive bisogna tener conto se siano stati provocati da fastidi ossessivi o odiosi, come l’attenuante della provocazione nel diritto penale. Bene, avverte la Cassazione: i fastidi odiosi e ossessivi possono costituire un’attenuante importante e forse possono diventare, come dire, un’esimente, nel caso in cui si arrivi a provare che quei fastidi erano stati fatti provocatoriamente con l’intenzione dolosa di indurre in errore.

     Nella valutazione dei fastidi va usato un criterio di adeguatezza, perché i fastidi possono diventare insopportabili non solo se ossessivi, ma anche e soprattutto se tesi a deteriorare l’immagine personale nel luogo di lavoro (come nell’esempio di prima con l’essere messi a una nuova "berlina" in un corridoio fra paraventi) o nella famiglia o nei normali rapporti con gli altri, o tesi a deteriorare l’intimo più riservato della sfera sessuale.

     Nel caso esaminato con la sentenza n. 143 del 2000 si è avuto un caso di molestie sessuali, seguite poi da fastidi psicologici: era dunque un caso davvero emblematico, per cui si poneva comunque il problema della prova, con equilibrio e senza emozioni, che non poteva essere scavalcata solo per gravità del comportamento denunciato. La Cassazione riconosce che in questi casi la prova è "particolarmente difficoltosa a causa di eventuali sacche di omertà, sempre presenti, o per altre ragioni", ma giustamente richiede prove serie; le prove serie possono essere anche induttive (art. 2729 del codice civile), che in concreto sono le uniche utilizzabili perché è difficile cogliere una flagranza nelle molestie, ma bisogna che le prove ci siano. Dice ancora la Cassazione: "le molestie sessuali costituiscono uno dei comportamenti più detestabili fra quelli che possono ledere la personalità morale e, come conseguenza, l’integrità psicofisica dei prestatori di lavoro"; in base all’art. 2087 del codice civile il datore di lavoro non può limitarsi al rispetto della legislazione di prevenzione, ma deve anche impedire i comportamenti come le molestie sessuali ugualmente lesive dell’integrità psicofisica e se non lo fa deve risarcire il danno. Va data però la prova, anzi una doppia prova: sia della lesione (il danno), sia del nesso causale con quel comportamento, che può essere doloso o, dice sempre la Cassazione, anche colposo. La prova, necessariamente difficile, è molto semplificata.

     Per capire meglio, bisogna entrare nel concreto. Nel caso esaminato dalla Cassazione con la sentenza n. 143 del 2000 una lavoratrice sosteneva di essere stata perseguitata da un superiore con richieste sessuali che erano sfociate in molestie e poi, per vendetta di fronte al rifiuto, in un comportamento discriminatorio e persecutorio che avrebbero causato una sindrome depressiva; dice, o lascia capire, che magari qualche errore, se l’ha fatto, l’ha fatto solo perché soffocata dalle molestie prima sessuali e poi morali. Per provare le accuse, aveva chiesto alcune testimonianze, accolte dal Pretore solo in parte, e comunque alla fine del processo di primo grado non si era raggiunta alcuna prova né delle molestie sessuali né del successivo mobbing; in appello, la lavoratrice non aveva chiesto altre prove. La Cassazione non ha potuto far altro che prendere atto e così conclude: "nonostante la dovizia di argomenti — di altissimo pregio sotto il profilo giuridico e, quindi, astrattamente condivisibili — svolti dalla meritevole (nuova) difesa della ricorrente, la sentenza impugnata deve rimanere ferma".

     Bisogna chiedersi, per concludere, se la Cassazione ha preferito lavarsene le mani fermandosi di fronte all’eccezione della mancata prova. No, proprio no, perché anzi la Cassazione ha avuto modo comunque di affermare gli importanti principi, di cui s’è detto, ed ha fatto benissimo a riaffermare il principio rigoroso dell’onere della prova, tanto più necessaria per comportamenti volutamente sfuggenti come quelli sintetizzati nella parola mobbing.

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