RISARCIMENTO
DEL DANNO PER INFARTO MIOCARDICO CAUSATO DA DEQUALIFICAZIONE PROFESSIONALE
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Deve
essere integrale anche se si accerti l’esistenza di una concausa
naturale (Cassazione Sezione Lavoro n. 12339 del 5 novembre 1999, Pres.
Delli Priscoli, Rel. Mercurio).
R.A.
è stato assunto dalla S.p.A. Ansaldo nel gennaio del 1980 per essere
destinato, nella sua qualità di ingegnere, a dirigere un cantiere nello
Yemen del Nord, per il periodo di circa tre anni. Dopo due anni è stato
richiamato in patria e destinato a mansioni di livello inferiore, restando
poi addirittura inutilizzato per lunghi periodi. In seguito a ciò è
stato colpito da depressione e da infarto almiocardio.
Egli si è rivolto al Pretore di Genova chiedendo, tra l’altro, la
condanna della datrice di lavoro al risarcimento del danno da
dequalificazione e del danno alla salute.
Il Pretore ha determinato (con sentenza parziale successivamente
confermata dal Tribunale in grado di appello), il risarcimento del danno
da dequalificazione in misura di lire 60 milioni, disponendo una
consulenza tecnica per l’accertamento del danno alla salute.
In seguito al deposito della relazione peritale, il Pretore, con altra
sentenza, ha dichiarato che la malattia nervosa, da valutarsi nella misura
del 15 per cento della totale invalidità, era stata totalmente causata
dall’illegittimo comportamento della società Ansaldo e che l’infarto
al miocardio (subito il 2 marzo 1987), da valutarsi nella misura del 40
per cento della totale invalidità, era stato parzialmente causato, nella
misura del 30 per cento, dal medesimo illegittimo comportamento della
società: condannava quindi quest’ultima a risarcire al R. il
conseguente danno “biologico” (inteso come “danno alla salute
rilevante nell’ambito della sfera lavorativa, economica, sociale,
ricreativa e relazionale in cui si esplica l’intera personalità
dell’individuo”) mediante pagamento della complessiva somma di lire
135.000.000, equitativamente liquidata.
In grado di appello il Tribunale di Genova ha determinato il risarcimento
del danno in misura di lire 140 milioni, affermando, in base alle
conclusioni del consulente tecnico nominato d’ufficio in secondo grado,
che il danno alla salute del R. determinato dalle vicende lavorative era
quantificabile complessivamente nel 28 per cento di invalidità, di cui il
15 per cento imputabile alla patologia psichica (sindrome ansioso
depressiva), collegata interamente da nesso causale ai problemi
lavorativi, ed il residuo 13 per cento imputabile alla patologia
circolatoria (infarto miocardio). Ha escluso, sempre in adesione al parere
del consulente tecnico d’appello, che nel determinismo dell’infarto
avessero avuto un ruolo significativo la pregressa abitudine al fumo, la
dislipidemia ed un lontano episodio neurologico cerebrale, ed ha invece
ritenuto il ruolo concausale di una “arteriosclerosi coronarica”
(evidenziata nel 1987) dalle caratteristiche imponenti in quanto
determinante stenosi ed occlusioni aortiche, ed avente cause genetiche od
organiche, diverse cioè da agenti stressogeni collegati ai problemi
lavorativi. Ha quindi attribuito alla aterosclerosi coronarica, quale
patologia probabilmente preesistente all’epoca dello stress
occupazionale, una incidenza causale nella determinazione dell’infarto
nella misura dei due terzi, limitando quindi al un terzo l’incidenza
della situazione lavorativa, ed attribuendo pertanto a tale situazione
lavorativa il 13 per cento della complessiva invalidità causata
dall’infarto, pari al 40 per cento.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 12339 del 5 novembre 1999, Pres. Delli
Priscoli, Rel. Mercurio), ha accolto il ricorso del lavoratore, in quanto
ha ritenuto che il Tribunale abbia errato nell’escludere che il danno
provocato dalla patologia cardiaca fosse imputabile in ragione del 100% al
comportamento illegittimo della datrice di lavoro, avendo riconosciuto,
quale concausa o antecedente condizionante una “aterosclerosi coronarica”
con efficacia causale per due terzi. La Corte ha richiamato in proposito
la sua giurisprudenza secondo cui una comparazione del grado di incidenza
di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto fra una pluralità di
comportamenti umani colpevoli, ma non già tra una causa umana imputabile
e una concausa naturale non imputabile; in questo caso essendo pacifico
che la concausa dell’infarto era naturale – ha osservato la Corte –
il Tribunale avrebbe dovuto porre a carico della datrice di lavoro, per il
suo illegittimo comportamento, il risarcimento integrale del danno subito
dal lavoratore.
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