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La sfasatura fra ciò che si fa e come lo si racconta

di Anna Maria Piussi

docente universitaria

Essendo un'insegnante di pedagogia all'Università e insegnando pedagogia intervengo in questa doppia veste. Mi ha colpito molto il livello, non solo qualitativo ma anche di forza che ho sentito ieri e questa mattina nelle relazioni. Per me è molto chiaro e visibile questo nesso tra il riuscire a prendere la parola nel senso di mettere in parola il proprio sapere e il fatto che questo sapere era frutto di relazioni, di libertà e di desideri importanti. Questo passaggio da un saper fare, che indubbiamente esiste, e il saperlo dire, non c'è se è assente un contesto di relazioni, di libertà continuo. La scuola dei nidi, di cui ha parlato Lorenzoni, è abbastanza diversa dalla scuola materna. I nidi sono delle situazioni di grandissima qualità in Italia, però sono luoghi il cui sapere non ha fatto questo passaggio di qualità, di spostamento verso un sapere libero. Questo lo dico tranquillamente per cui le parole che ho sentito ieri dalle maestre, specialmente le prime tre, sono parole che inaugurano qualcosa di importante. La situazione dei nidi è stata, in questi ultimi anni, una cultura tra le più avanzate nell'ambito della pedagogia però è un sapere che neutralizza fondamentalmente il cuore e l'origine del saper fare cioè la relazione materna. Mette la relazione materna fuori campo, ne parla in una situazione neutra per cui le relazioni non si capisce più che cosa siano. C'è una sfasatura tra quello che si fa di buono, ed è indubbiamente buono nei nidi e nelle scuole materne, e il come se ne parla. Per cui si crea un circolo vizioso micidiale tra quello che avviene di impoverimento simbolico a partire dai nidi fino all'università dove il circolo ricomincia, si ripete. All'Università si producono molti saperi dell'educare che poi con filtri vari, mediazioni varie, che a loro volta impoveriscono il tutto, arrivano attraverso l'aggiornamento e la formazione continua. Io sono una di quelle che almeno da 12 anni va non solo dicendo, ma anche scrivendo, che questa famosa piramide va capovolta (questa superiorità delle maestre rispetto ai gradi superiori della scuola) tanto che anni fa negli atti del convegno di Terni, nel libro Bambine e donne in educazione, io avevo scritto che scuola materna va chiamata, appunto, scuola materna. La scuola materna ha la sua importanza come nome, come nominare questo tipo di realtà. Io avverto il pericolo che il sapere delle educatrici e delle maestre venga veramente scippato, e questo lo dico in maniera molto chiara. Anche il sapere delle madri è un sapere a rischio di scippo. Per questa ragione ritengo estremamente importante un momento di dibattito come questo.di Anna Maria Piussi Passo a parlare del problema della formazione. Ieri si è parlato della peculiarità delle maestre elementari che non sono troppo legate alle discipline nella didattica; Cristina ieri diceva: "Noi siamo ritenute non formate e ci vogliono formare. Come se fossimo prive di forma e quindi bisognose continuamente di essere formate". Voi sapete che nei prossimi 2 mesi si deciderà il nuovo sistema di formazione degli insegnanti, delle educatrici dei nidi, o meglio le educatrici dell'infanzia (io preferisco chiamarle così) e delle maestre di scuola materna e scuola elementare. Secondo me bisogna dare dei segnali molto precisi, solleciti e simbolicamente forti rispetto a quel che sta arrivando perché, per quel che riguarda le educatrici per l'infanzia ricordava ieri Letizia è stata prevista e verrà attivata anche da noi all'Università di Verona, una laurea triennale, una laurea breve. A Verona stiamo lavorando da tempo per riuscire ad orientare questo curriculum della laurea breve in modo più conveniente rispetto a saperi che siano il più possibile non disciplinaristici e anche ci consentano di lavorare in tre, quattro docenti dell'Università di Verona, in modo da offrire dei percorsi, per queste future educatrici, in termini di elaborazione di un pensiero condiviso. L'altra cosa riguarda le insegnanti della scuola per l'infanzia ed elementari. Noi sappiamo che nelle scuole per l'infanzia è previsto questo modo di formazione che sarà, più o meno il biennio, la laurea breve più probabilmente un anno o due anni di scuola di specializzazione dove tutto il triennio, dalle cose che stanno accadendo, sarà tutto orientato in senso disciplinaristico. Ci saranno i matematici, i letterati, i linguisti, eccetera eccetera. Ora questo non è negativo in assoluto, dipende dal senso, dal come si insegna, dal perché si fa. Però c'è in previsione l'ipotesi di un impianto fortemente disciplinaristico per cui tutto quel che riguarda le scienze umane è in secondissimo piano. Io qui vedo l'importanza dell'Università rispetto a un rompere un circolo vizioso che è quello secondo il quale molte delle educatrici dell'infanzia e delle maestre di scuola elementare e scuola materna in realtà in questi decenni hanno puntato ad una professionalità, proprio per autovalorizzarsi, per darsi valore, ad una professionalità di tipo neutro. Lo dico con decisione perché è purtroppo così. Quando si va a fare formazione con loro ci si accorge di questo. È difficile andare a toccare, stimolarle sulla consapevolezza di essere prima di tutto donne in relazione con altre donne che sono madri dei bambini con cui si lavora. Questa tendenza alla neutralizzazione di sé e ripararsi dietro a un ruolo o a una condizione di professionalità tecnica e comunque neutra è qualcosa che molte di noi si son portate dietro. Lavorando con le maestre, fino a qualche anno fa, chiedevo il perché piaceva loro insegnare anzi no, chiedevo: "Perché fai questo lavoro?" La risposta era: "Perché mi piace stare con i bambini e le bambine piccole". Per me era una cosa abbastanza, anzi, molto discutibile; non la potevo prendere come una motivazione professionale valida mentre oggi se una maestra mi dice che fa questo mestiere perché le piacciono i bambini e le bambine, adesso capisco che c'è un qualcosa di più che va assolutamente valorizzato poiché dietro ci sta l'idea che mi piace lavorare con i bambini e le bambine perché mi piacciono le madri di questi bambini e bambine. Mi piace la relazione con queste madri. Ieri è stato discusso a lungo il tema delle discipline; io credo che all'Università, almeno per quello che mi riguarda, non bisogna tanto pensare a un momento predisciplinare. Per me è un discorso di apertura continua delle discipline e un attraversamento della lingua materna. All'Università io tento, e a volte ci riesco, di riaprire i linguaggi specialistici. Studenti e studentesse portano i loro linguaggi specialistici a lezione, nel lavoro di tesi, come fosse un di più. C'è tutto un lavoro da fare per aprire questi linguaggi, questi termini specialistici e riattraversarli affinché entrino in contatto con la loro esperienza. Tutto questo è una forma di spiazzamento attraverso cui si crea in loro stupore estremamente salutare. Questo non vuol dire che non si possa arrivare a molte parole della vita quotidiana: parlare di anziani e non vecchi anche perché è politicamente corretto; nominare quello che fanno le maestre non in termini di professionalità ma in termini di civiltà è un altro degli attraversamenti che cerco di fare dei linguaggi codificati e specialistici. Però dopo si cerca di arrivare insieme a dei linguaggi più precisi, non in termini specialistici ma più corrispondenti a un voler dire che però non perde l'esperienza.

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