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La bottega della serenità

di Bianca Maria Cattabriga

insegnante scuola media

Volevo portare una piccola storia di "soffitta". Sono 15 anni che faccio l'insegnante di sostegno alla scuola media. Ho sempre creduto nell'integrazione, nel lavoro nella classe, nel coinvolgere tutti. Un metodo "olistico" si è detto oggi che non avesse la separazione del sapere, la separazione tra saperi e vissuti, ecc. Quest'anno sono finita in una scuola "bene" del centro città e mi trovo a lavorare in solaio, al quarto piano abbandonato della scuola. È una piccola scuola, le aule sono tre in un piano e sopra ci sono due piani vuoti. In uno dei piani vuoti, con la complicità della bidella, che ha capito al volo la situazione, se volevo sopravvivere io, lei e tutti dovevo andare al quarto piano ho fatto la serra. Questa scuola, che è una carta carbone di una superiore, una superiore venuta male come le medie che si impostano proprio per preparare alle superiori, quindi discipline, orari. I bambini non fanno un'uscita didattica, non c'è materiale di nessun genere, nonostante sia una scuola bene (figli di avvocati e dottori). La prima cosa che mi hanno detto mettendo piede lì: "non c'è niente". Materiale zero, non c'è un computer che funzioni, niente. E niente, sono in soffitta a fare la mia serra, mi sono chiesta che senso ha. Ho tentato di entrare in classe, di fare un lavoro di integrazione, nella solitudine più completa. Colleghe murate nella loro sicurezza di un sapere con la s maiuscola, del "Dante" e "La Divina Commedia" fatto ai bambini arabi la quinta ora. Bilinguismo, l'ora di francese, unica opportunità di questi bambini messo dall'una alle due, due giorni alla settimana. Dopo cinque ore, la sesta ora, fanno la seconda lingua: francese, trenta bambini di due classi messe insieme.
Io sono in soffitta, in solaio. Senso della relazione: dura, dopo aver combattuto per anni per l'integrazione, la differenza è un valore, l'errore è di inciampo per l'apprendimento ecc. Qui ho trovato le parole, questo per me è un grande laboratorio di parole: il lavoro dell'autoriforma. Anche la mia relazione potrebbe essere vista come una relazione uno a uno, esclusiva, perché quando arrivo prendo in classe il bambino e lo porto al quarto piano. All'una lo porto giù. Che senso ha la relazione: io qui forse ho trovato il senso del mio essere donna nella relazione che vivo con loro in questo modo. Io mi sono accorta che quando ho un handicap, quando c'è una differenza io la vivo su di me, ma lo separavo dall'essere una donna, mi sembrava una patologia, una deformazione professionale. Se ho un bambino dislessico io comincio ad essere dislessica. Ho un bambino Down, ho le stesse modalità, in piccolo, riproduco degli elementi. Il senso della relazione che sto vivendo è proprio che io mi faccio carico di questo rapporto, passando io attraverso loro e loro attraverso me. Questo comporta il fatto che io a casa ne parli, mi vedono che sembro handicappata anch'io. Però forse, in questo luogo, le parole che hanno illuminato le zone grigie dalle elementari, al nido in poi, hanno questo valore, di far nascere le cose, in me forse stanno facendo questo. Fanno nascere anche una parte di me che è competente nella relazione. È una competenza, non è un perdersi nell'altro e basta. È un sapere perché poi li sblocco questi ragazzini; non gli faccio passare il loro deficit, però ci sono degli sblocchi forti, ci sono dei salti, sia in me che in loro. Ecco, all'inizio quando pensavo allo schema dell'intervento mi veniva da chiamarlo "il solaio al quarto piano", "la serra in solaio". Adesso quella è "la bottega della serenità" perché io gli ho dato un senso, così come, secondo me, questo luogo è stato un'altra bottega della serenità. Qui di conflitti se ne parla, però c'è un senso della relazione fra tutti: adesso ho la parola per dirlo. Non lo chiamerò più la serra, il solaio, lo chiamerò la bottega della serenità e mi piace.
Grazie.

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