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Le discipline sono un argomento di conversazione

di Guido Armellini

insegnante scuola superiore

Questo intervento l'ho pensato stanotte sotto l'effetto, principalmente, delle relazioni iniziali di ieri, e anch'io ringrazio le maestre. Poi si è tutto complicato nel corso del dibattito successivo, per cui temo che sarà confuso. Pensavo di accennare a quattro punti in risposta a cose dette.
Il primo punto. L'intervento di Cristina di ieri è entrato in relazione con la mia situazione attuale. Io sono in pensione da tre, quattro anni e mi capita di frequentare molti insegnanti, di frequentare anche studenti delle superiori e di frequentarli però per periodi brevi. O un incontro solo o quattro o cinque incontri. In questi incontri le cose vanno sempre a meraviglia, ma sento una mancanza di qualche cosa: la frequenza quotidiana con ragazzi e ragazze anche dentro vincoli sgradevoli, nelle situazioni in cui non ci piacciamo. Tutti questi momenti di grigiore penso hanno molto a che fare con il disincanto di cui si è parlato. Il primo punto era dunque l'elogio del disincanto.
Il secondo punto, ripresissimo, è la questione della "fortunata o dotta ignoranza". Io credo che ci sia una ignoranza terribile in molti nostri colleghi, l'ignoranza di secondo grado, il non sapere di non sapere.
Quella è tremenda è la peggiore perché è arroganza, è totale assenza di curiosità, ecc. ecc.. Invece l'ignoranza che socraticamente è sapere di non sapere, quella davvero credo che sia preziosa e mi pare che si possa collocare qui la questione delle discipline. A questo riguardo mi ha colpito quello che diceva Lucia a proposito della competenza. Diceva "In fondo le mamme che mi portano i loro bambini e le loro bambine non me li portano perché io insegni italiano, ma perché stiano con me". E ho pensato che invece io sono sempre stato nella situazione capovolta: a me, che insegno alle superiori, i ragazzi sono mandati non perché stiano con me ma perché io gli insegni l'italiano. Ed è questa la separazione che fa, secondo me, il problema delle discipline; una separazione che viene poi anche sanzionata ufficialmente. Quando si elencano le competenze degli insegnanti, si elencano le competenze disciplinari e le competenze relazionali come fossero due cose separate, e si attribuiscono le prime principalmente a quelli delle superiori ("il professore"), le seconde alle maestre. Credo che il problema stia in questa separazione, cioè non è che uno possa essere competente nell'insegnare italiano e incompetente nello stare con, sono due cose che vanno insieme. Mi è venuto in mente, anche sentendo Franco a proposito dei toni di voce. Ultimamente mi sono letto la voce "parola" di Roland Barthes sull'Enciclopedia Einaudi, che dice più o meno: "in ogni comunicazione, in ogni scambio di parola è sottesa una domanda: chi sono io per te? Chi sei tu per me"? E questa domanda, dice lui (e questo può darsi che sia maschile) è una domanda molto imbarazzante. Per esempio mi trovo in ascensore con una persona, dobbiamo scambiare delle parole e mettere tra noi questa domanda è una cosa che imbarazza; allora, dice Barthes, per evitare questo imbarazzo, ci sono gli argomenti di conversazione. Si va dagli argomenti di conversazione più banali, quelli che ci tengono più al sicuro: per esempio il tempo che fa. Barthes fa l'esempio della virtù dei cani e dei gatti, e poi indica un crescendo che giunge gradualmente fino alle confidenze d'amore, in cui per forza le domande "Chi sono io per te? Chi sei tu per me?", entrano in campo in maniera più diretta, più inquietante e più coinvolgente. Io credo che le discipline forse siano un argomento di conversazione. E questo argomento di conversazione dovrebbe essere sufficientemente vicino da coinvolgerci e sufficientemente lontano da rassicurarci. Ed è un terreno di conversazione come sempre continuamente rinegoziato, perché deve essere anche un terreno di conversazione per tutti e due, sia per me, sia per chi ho di fronte. Quindi, diciamo, le discipline possono diventare un terreno di incontro tra esseri umani. E questo già crea dei confini diversi, già sdisciplina i confini delle discipline. Credo che Luisa Muraro, quando parlava del rapporto tra esperienze di vita ed esperienze culturali, un po' intendesse anche questo. Ci troviamo tra esseri umani diversi dentro questa classe con modelli di mondo, orizzonti d'attesa, domande di senso diverse attorno a qualche cosa (la disciplina), e poi la tiriamo da varie parti, la cambiamo, la rimodelliamo a partire dagli esseri umani che siamo. Forse anche qui c'è la metafora dello specchio di cui parlava anche Franco prima: le discipline dentro questo tipo di scambio. Io ho sempre insegnato letteratura, la cosa sulla quale ho ragionato di più. La mia idea sulla letteratura è cambiata moltissimo insegnando, ma è cambiata principalmente nel mio stare con gli studenti. Cioè insegnare italiano e stare con gli esseri umani che avevo di fronte era la stessa cosa, e ha fatto sì che tutto quanto loro portavano modificasse la cosa che io stavo insegnando. Insomma lo stare con non è semplicemente maternage, ha in sé un potere di conoscenza anche proprio sulla disciplina che si insegna. Al primo o secondo incontro che abbiamo fatto a Roma accennavo al problema della "sindrome dello sprecato" molto diffusa tra gli insegnanti maschi. Sembra che l'occuparsi di persone più giovani sia qualcosa di un po' degradante per un uomo: "che cosa ci fa un intellettuale come me in mezzo a queste donne e a questi bambini". Come se, occuparsi di persone più piccole, volesse dire "prendere un sapere che è molto alto e poi portarlo in basso". Le cose che sono state dette ieri mi hanno fatto pensare all'utilità di ripensare a questo tema, che nel nostro libro abbiamo intitolato: "Che cosa diventa una disciplina quando entra in un aula scolastica". Questa è una cosa sulla quale possiamo andare avanti. Che cosa diventa una disciplina quando entra in un aula scolastica, non che cosa diventa uno studente quando gli ficchiamo nella testa una disciplina: è tutta un'altra prospettiva.
La terza questione è lo scambio fecondo uomini donne di cui parlava Gian Piero. E io mi sono molto riconosciuto in quello che diceva Lucia a proposito della faccenda del doppio plurale e del fatto che sembrava che le bambine, ma anche i bambini, non aspettassero altro. Nelle mie esperienze di insegnante è successo che, quando ho cominciato a sessuare il linguaggio, ho visto che effettivamente le cose cambiavano, non perché si facevano 2 categorie (le ragazze e i ragazzi), ma ogni ragazza e ogni ragazzo si sentivano un po' più chiamati per nome. Lucia parlava dei papà che senza vergogna si chinano sui bambini, gli allacciano il cappotto … io sono stato un padre così, ho fatto queste cose, pannolini, tutto, ecc., ecc. Però c'è un problema e su questo credo sarebbe interessante ragionare di più. Il problema lo racconto con un piccolo episodio mio, relativo a mio figlio più grande. Una maestra diede un cattivo gli diede un brutto voto e scrisse che voleva fosse formato dal papà e non dalla mamma. Io ho firmato, poi sono andato e ho chiesto, ma perché proprio da me? Lei ha detto perché il papà è più severo, perché la madre è più indulgente. E io le ho risposto in un modo che adesso, a distanza di molti anni, considero sbagliato; perché le ho detto: "in fondo faccia conto che siamo due mamme". Orribile, perché, come diceva Luisa Muraro, sono le mamme che covano, non i papà. Allora questa faccenda che ci sono delle cose che i papà non possono fare,mi dice qualche cosa. Intanto i figli non li ho avuti dentro di me, non li ho partoriti, insomma, c'è tutta una relazione molto fisica, di vicinanza molto forte che io, con questi figli non ho avuto. E questo è un di meno. E conduce a quel che diceva anche Gian Piero "riconoscere l'autorità femminile". Ma poi c'è un'altra differenza che io non posso vivere come un di meno perché altrimenti mi si aprirebbero tre strade obbligate: il padre assente, cioè il padre che, persa l'autorità patriarcale, si assenta; il padre vicemadre che praticamente fa il secondo; e il padre complice del figlio contro l'autorità materna. Ci vuole invece un padre che faccia il padre senza ricadere nel modello patriarcale, un padre che ha qualcosa di proprio, di maschile non maschilista, che è una cosa buona per sé, par la madre, per i figli e le figlie. E quindi penso che ci sia da andare avanti su questa questione. Se trasporto questo discorso nella scuola, devo dire che credo di aver portato nella scuola il mio desiderio, un desiderio di uomo, ci sono andato perché desideravo andarci, lo stare insieme con le ragazze e i ragazzi giovani mi interessava di più delle pure e semplici materie che insegnavo, ecc., ecc.. Per ragionare su questa specificità, forse può essere utile riferirci alla questione della vicinanza e della distanza nella relazione. Andrea Bagni parlava di un erotismo che c'è a volte nelle parole, che ci si può toccare anche se non ci si tocca fisicamente. Noi uomini in genere abbiamo una maggiore difficoltà alla vicinanza fisica, ma questo forse non vuol dire solo che dobbiamo avvicinarci di più; forse dobbiamo sfruttare questa maggiore distanza, riuscire a vivere la distanza come qualcosa di caldo e non come qualcosa di freddo e valorizzare questa specificità di una relazione che è sempre un po' meno vicina di quella che una donna sa instaurare. Un altro mio figlio, il secondo, quando faceva le medie e aveva tutte insegnanti donne, era in grande disagio; è andato alle superiori e aveva un insegnante uomo, che a dir la verità non era niente di speciale, ma era un uomo, e lui è rifiorito. Anche su questo che credo sarebbe interessante ragionare proprio perché credo che sia importante che i ragazzi di oggi, i bambini di oggi, crescano contenti di essere uomini. Dove contento di essere uomo non vuol dire essere un duro che mostra i muscoli, ma contento di essere quello che uno è in relazione con donne che sono diverse da noi, che hanno sempre cose interessanti da dirci che noi non conosciamo e non abbiamo.
L'ultima cosa riguardava la questione dell'adolescenza differita e che io vedrei collegata al racconto di Letizia Bianchi, a proposito di quelle studentesse che aspettavano passivamente al buio, o all'episodio di Giannina su quella studentessa addormentata con la quale nessuno ha interagito. Aggiungerei alle cose che sono state dette un'altra che a me sembra un po' preoccupante: la questione del diritto al successo formativo adesso entra molto nel vocabolario buropedagogico. In parecchi corsi questo diritto si traduce in una sostanziale non valutazione, cioè tutti devono avere il successo formativo. Il problema dell'insuccesso formativo non è un problema dello studente ma della scuola. Questo cosa produce? Produce che la scuola siccome non vuole avere problemi tende a dare il successo a tutti. Questa è una forma di deresponsabilizzazione molto forte. Perché una cosa è la centralità dell'alunno, il modellarsi sui diversi stili cognitivi, ecc.; in questo senso è certo che c'è una responsabilità di chi insegna. Ma se poi il successo scolastico si fa diventare un diritto di ogni studente e una specie di obbligo della scuola, questo crea un corto circuito tra assenza di autorità e assenza di responsabilità che mi sembra molto preoccupante. C'è per la verità un'altra cosa che volevo dire sulle scuole di specializzazione. Nicoletta ha detto delle cose belle su queste scuole e sicuramente sono vere. Io, avendone viste alcune, non ho avuto la stessa impressione e dico solo una cosa. Se insegnare italiano e stare insieme con ragazzi e ragazze non sono due cose separate ma sono la stessa cosa, la didattica non è una tecnica per trasmettere delle cose che uno impara e poi applica; la didattica è la costruzione di un sapere nuovo. Nelle scuole di specializzazione dove sono stato io, invece, l'incontro con il pensiero pedagogico non è una apertura mentale, ecc., ecc., ma è proprio l'apprendimento molto pedissequo di categorie, di modelli da applicare e il tirocinio viene ad essere, anche per problemi di retribuzione e di inquadramento per quelli che lo svolgono, una branca minore di questo apprendimento teorico, in cui il professore è assolutamente dominante sulla maestra. Allora io penso che possiamo starci dentro valorizzando il positivo se c'è, ma stiamoci dentro aprendo conflitti dove è opportuno aprirli.
Volevo concludere con una citazione di Bateson, sia perché qui c'è Rosalba Conserva e mi piace farle un omaggio, sia perché si è parlato di nidi, di gabbianelle, di covare, gatti, ecc., ecc.. In questa citazione che è tratta da Una sacra unità, Bateson, prendendo esempio da una mamma cagna, dimostra e argomenta come ogni apprendimento anche quello più elementare sia estremamente complesso perché anche insegnare la cosa più semplice è un modo molto complesso di stare con. Vi leggo la citazione e poi ho concluso: "Avevo in famiglia una cagna di razza Kishond, e quando finalmente divenne madre ebbi il privilegio di assistere allo svezzamento di uno dei suoi cuccioli. Si svolse come per tutti i canidi: la madre preme la bocca aperta sulla nuca del cucciolo il quale viene così schiacciato a terra. Se a questo punto il cucciolo chiede ancora latte viene schiacciato di nuovo. Fin qui si tratta solo di una storia di condizionamento operante con rinforzo negativo e rientrerebbe benissimo in ogni manuale di psicologia. Ma il passo successivo fu quasi una battaglia che si trasformò in un gioco affettuoso tra madre e figlio; il figlio aggredì la bocca della madre con la sua, poi i due si misero a giocare con le bocche. In altre parole il contesto di apprendimento è intrecciato all'interno di una relazione globale e non ha il netto risalto di un incidente isolato: non è solo "impara a non chiedere la tetta" ma è una faccenda molto più complicata entro un tessuto complessivo intrecciato di relazioni di amore. E se i cani attingono a quest'ordine di complessità si può star sicuri che gli esseri umani possono e debbono raggiungere due o tre ordini di complessità in più". Non ha detto le cagne, ha detto i cani, e su questo ci sarebbe da eccepire. Ma mi sembra che questa idea dell'insegnamentoapprendimento potrebbe essere un buon modello per i nostri pedagogisti ministeriali.

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