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4. Fra autonomia e riordino:
l'affermazione della scuola-azienda

La penetrazione prima del credo aziendalista nel mondo della scuola e poi dell'azienda tout court è sicuramente leggibile come un momento di questa debolezza "teorica" degli insegnanti. D'altronde anche intellettuali di più sicura collocazione hanno preferito disinteressarsi dell'istruzione e sono stati per lo più assai passivi dinanzi al vento aziendalista che ha travolto la scuola.
Tranne rare eccezioni, peraltro poco ascoltate e considerate, il silenzio in cui è stata riformata la scuola italiana è stato assordante, almeno fino all'anno scorso. Peccato che molto (di male) fosse a quella data già stato fatto. "Il vento che imperversa è quello del liberismo, accompagnato da un'ideologia (e poi dicono che li ideologie sono tramontate!) che ho definito col nome di panaziendalismo" (17). "Il panaziendalismo proclama l'azienda, con i suoi fini e i suoi metodi, come modello universale" (18).
Sono le parole del latinista La Penna che, come tutti qui sapete, ha scritto un libro penetrante e appassionato sulla scuola e si sforza, anche con la freschezza dell'ironia (esemplare a questo proposito la pagina sul lavoro della Commissione dei saggi) di denunciare i guasti provocati dalla metafora aziendalista applicata all'educazione e di ridurne l'aggressività pervasiva. Assistiamo perplessi d'altronde all'indulgenza (assai poco ironica) con cui gli imprenditori si autoelogiano e propongono alla scuola "il mondo dell'impresa, con il suo spirito innovativo, i suoi valori-guida, le sue migliori pratiche", come "stimolo e beneficio" per la scuola tutta (19).
Tuttavia che il mondo imprenditoriale, dopo decenni di latitanza e di disinteresse sul fronte dell'educazione, dalla metà degli annio'90 sia di nuovo potentemente interessato all' "offerta formativa" delle scuole, stupisce meno, se se ne coglie la -peraltro conclamata- portata strumentale: disporre di lavoratori e consumatori flessibili, ben addestrati dalla stessa mobilità dell'offerta formativa, appresa fin dall'età scolare, a farsi largo nel futuro mercato del lavoro, tanto nuovo e precario quanto spietatamente competitivo. I giovani devono imparare, come auspica la Confindustria, "a muoversi agevolmente nella vita e nel lavoro" (20), il che significa che nell'arco della loro vita lavorativa, ci si deve adeguare alla competizione e alla frammentarietà del mercato, disponibili a riciclare a più riprese i loro know how, in un "lifelong learning" (21), che rappresenta oggi per l'impresa la preparazione professionale più preziosa.
Inoltre, seppure in contraddizione rispetto al trionfalismo e alle autoincensazioni confindustriali per la (presunta) imprescindibile missione civilizzatrice del mercato, appare essenziale per l'impresa, altresì, oggi più di ieri, chiedere insistentemente proprio alle scuole di stato questa funzione professionalizzante.
E perché?
Per risparmiare naturalmente, perché un'utile preparazione al lavoro, in presenza di un lavoro flessibile, che oggi c'è e domani non si sa, è una voce di spesa che le imprese non hanno alcuna intenzione di accollarsi. Preparare i propri lavoratori oggi, per poi magari licenziarli domani, costerebbe troppo agli imprenditori. E allora si chiede che sia la scuola a garantire una forte impronta professionalizzante. Ma senza spendere troppo: un anno di meno per la formazione di base di tutti e poi magari corsi post-diploma, lautamente finanziati dalla CEE, ma per pochi. L'invito del mercato ad occuparsi prevalentemente della formazione intesa come formazione al lavoro è ampiamente raccolto dalle politiche scolastiche governative, che ne hanno fatto fin dall'inizio l'asse ideologico ed operativo della riforma.
Proprio il complesso di leggi e norme che hanno istituito l'autonomia a configura una apertura organica e funzionale della scuola alle istanze produttive. Altre istanze sono cadute nell'irrilevanza, soprattutto quella necessità (che ancora emergeva dai Programmi Brocca) di contraddistinguere la scuola pubblica con una fisionomia culturale alta e condivisa, nella coscienza del ruolo indispensabile che una forte alfabetizzazione rappresenta per la democrazia. Anche di fronte alla crisi di valori e alla fragilità dei legami sociali nella società civile (salvo poi lamentarsene di fronte a ciò che di orrendo ed inspiegabile ci riserva la cronaca nera di questo paese), occorreva avere il coraggio di puntare con priorità assoluta alla crescita culturale ed emotiva delle nuove generazioni come priorità assoluta ed irrinunciabile. I nostri ministri possono anche ammantarsi del motto di Don Milani, "I care", mi preoccupo, mi curo. Ma ne tradiscono lo spirito pedagogico proprio sul terreno dell'alfabetizzazione di base, inteso come possesso sicuro di alfabeti complessi per tutti, non solo per i Pierini, figli del dottore. Molti oppositori alla riforma si sono sentiti traditi proprio su questo punto, in cui invece consiste, a mio parere, l'assicurazione più preziosa del nostro vivere civile futuro e presente.
Nell'anno in meno per la scuola di base (22), passa l'idea incivile (ma allettante perché poco costosa) che la contrazione di ritmi e tempi di apprendimento rappresenti un guadagno per il "successo formativo".
Ipocritamente si cita, anche a livello nazionale l'esperienza della Pestalozzi di Firenze, la scuola fondata da Codignola e basata sulla generosa scommessa che anche i bambini e le bambine dei quartieri proletari e sottoproletari e di Santa Croce (così era Santa Croce negli anni '40 e '50!) avessero diritto e possibilità di acquisire una solida preparazione culturale e civile. Scuola-città Pestalozzi è tuttora operante nel quartiere. Per giustificare i cicli se ne è sbandierata la sicura (sicurissima!) positività che consiste nella non interruzione fra elementari e medie, che la Pestalozzi ha da sempre posto al centro delle sue scelte pedagogiche. Purtroppo si è colpevolmente taciuto sulla durata del ciclo di base unitario della Pestalozzi: otto anni tondi e interi e non sette. E si tace, ancora più colpevolmente, sulle dimensioni e sui costi dell'impostazione pestalozziana.
La Pestalozzi ha infatti una sola sezione dalla prima elementare alla terza media! Una scuola per non più di 170 alunni in tutto! L'ideale dimensione per fare sentire i bambini e le bambine al centro della scuola, la loro scuola. Ma non è andata così, nelle riforme governative che si sono succedute. Basta pensare al "dimensionamento" che ha accorpato scuole su scuole, anche molto diverse fra loro, creando "istituzioni formative" (così si preferisce oggi al posto di "scuola") elefantiache.
La Pestalozzi è una scuola a misura d'uomo, o meglio di bambini/e, cioè piccola, accogliente. L'imparare e lo star bene a scuola passa anche dalle strutture. E ovviamente dalle loro dimensioni. Ma questo le riforme lo ignorano, perché progettare scuole dove si attui davvero in condizioni ottimali quell'avventura faticosa e appassionante che è l'imparare costa e costa parecchio. E i soldi per questo non ci sono.
Stare a scuola per meno tempo in strutture macro: questa è la linea "reale", non ideologica della politica riformistica. In questo modo passa anche l'idea che stare a scuola sia qualcosa di negativo, un peso di cui ci si può liberare senza troppo rimpianto. Passa l'idea che la vita e la verità stiano altrove, che la didattica breve sia bella, più bella delle altre, passa l'idea che le conoscenze possano essere minime e strumentali.
In questo senso anche le grandi riforme non sono neutre: possono essere o no educanti. Questa nostra sottende purtroppo un messaggio svalorizzante su ciò che la scuola può fare per fare crescere "la persona umana": formare "a pensare, a conoscere, a sapere, a valutare. L'educazione al sapere ( e non a tanti saperi) non è mai strumentale. Compito della scuola è formare al sapere e al pensare, prima che alle conoscenze specifiche"(23).
Invece l'articolo 4 della Legge sul Riordino (10/2/2000, n.30), laddove si specificano le finalità della scuola secondaria (che badate bene comincia un anno prima rispetto ad ora, a tredici anni!), giustappone senza una decisa priorità "la formazione culturale, umana e civile degli studenti" all' "acquisizione di conoscenze e capacità adeguate all'accesso all'istruzione superiore universitaria o non universitaria ovvero all'inserimento nel mondo del lavoro". La stessa scelta di canalizzare precocemente gli inadatti allo studio compare nella possibilità offerta già al secondo anno (quattordici anni!) di entrare nel canale della formazione professionale, non in una scuola beninteso, ma presso le regioni.
Non c'è più il "diritto allo studio": tramontata l'idea ed anche il significato politico dell'espressione, sostituita dal "successo formativo" recitato dall'articolo 1, comma 2, del Regolamento dell'autonomia, che forse è bene leggere per intero:
"L'autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo (sott. mia)" (24).
Il "successo" torna anche nell'art. 4 dello stesso Regolamento, quello dedicato all'autonomia didattica. Leggiamolo:
"Le istituzioni scolastiche, nel rispetto della libertà di insegnamento, della libertà di scelta educativa delle famiglie e delle finalità generali del sistema, a norma dell'articolo 8 concretizzano gli obiettivi nazionali in percorsi formativi funzionali alla realizzazione del diritto ad apprendere (sott. mia) e alla crescita educativa di tutti gli alunni, riconoscono e valorizzano le diversità, promuovono le potenzialità di ciascuno adottando tutte le iniziative utili al raggiungimento del successo formativo".
Il successo è la meta ultima della nuova scuola e della nuova didattica riformata. Successo scolastico? Successo nella vita lavorativa? "Successo formativo": che cosa vuol dure? Che dire poi di chi non ce la fa ad avere successo?
Il successo è d'altronde per tutti nella nuova scuola modulare. Ma è un "successo" al plurale! Chi non ce la fa -o saranno spariti tutti?-, chi è svantaggiato culturalmente, chi viene da situazioni culturalmente deprivate, chi fatica ad acquisire gli alfabeti avrà anche lui -democraticamente- i suoi "successi": altri "successi"….
A ciascuno il suo: ci saranno successi di serie A e successi di serie B. Chi non avrà successo a scuola nei moduli forti (italiano latino, matematica, lingue straniere) potrà sempre nascondere l'insuccesso dietro altri "successi", magari in "moduli" alternativi a quelli di alto profilo culturale, più leggeri e più dequalificati. Magari potrà espletare i suoi successi di basso profilo nella formazione professionale.
Lo studio è sparito perché certe scuole e certi corsi è proprio difficile chiamarli "studio". Non sono sparite invece, anzi sono in aumento nella new economy, i mestieri di pura esecutività, ma per questi lo studio effettivamente non serve.
Sparita la parola "studio" e anche la cosa, almeno per quello che lo studio designava in una tradizione culturale ed educativa italiana: studium, zelo per qualcosa di difficile, impegnativo e tuttavia indispensabile che rappresenta ciò che una cultura di più prezioso ritiene di possedere e decide di presentare ai nuovi nati e alle nuove nate della specie. Lo studio inteso come crescita di sapere (non di competenze, conoscenze e capacità) senza fretta e senza fini pratici. Come solitudine fattiva e come comunità operosa, come costruzione culturale nuova di una comunità che cresce.
Quello studiare a scuola, in classe -che non è avere successo- così ben descritto dai veri pedagogisti del secolo che si è chiuso: quasi tutti maestri e rigorosamente fuori dalle università: Mario Lodi, Bruno Ciari, Ersilia Zamponi…
Non a caso lo studio è sparito da ogni disegno di legge: sostituito appunto da "successo formativo", "istruzione", "formazione", "livelli culturali", "sviluppo delle competenze e delle capacità", "modulo".
"Studio" mette l'accento sul processo, un lungo avere cura, lungo e necessariamente e incerto, come tutti gli autentici processi umani.
Una sorta di venire alla luce (educare): itinerario, non tappa.
Tipico della società dello spettacolo e dell'apparire, il "successo" invece vive per essere visibile e certificabile. E' una tappa raggiunta sotto gli occhi di tutti. Mira al risultato. Anzi conta solo il risultato. E' anche, nel profondo dell'immaginario occidentale, accattivante. Accattivante perché nella sua esibizione, il successo è ovviamente dei vincenti.
Una scuola di vincenti.
Non è dunque vero - luogo comune che ha circolato anche nella sinistra e nelle associazioni professionali (per esempio, il CIDI)- che l'autonomia sia stata un mero strumento organizzativo, uno strumento, un contenitore in sé né buono né cattivo che poi sarebbe stato riempito a dovere dai curricoli.
Non è vero. Altrimenti non si spiegherebbe perché mai un contenitore sarebbe stato fatto e deliberato in anticipo di anni sui "contenuti" ( i curricoli). O non era più logico il contrario? Cioè che in base a quello che bambini/e e ragazzi/e avrebbero dovuto studiare si dessero -dopo o contestualmente- le migliori strutture organizzative? L'iter bislacco di queste riforme (partire dal tetto, ha commentato qualcuno) ha in realtà una sua profonda logica.
Era essenziale che i curricoli, ancor prima di venire definiti nelle loro priorità culturali, presentassero delle imprescindibili caratteristiche universali in tutto il "sistema formativo", questa è la vera innovazione.
E quali sono queste caratteristiche, gli universalia dei curricoli?
La prima permea e attraversa tutto il sistema dal ciclo di base all'università. Consiste nella centralità della valutazione, contenuta nello stesso Regolamento dell'autonomia già citato (art. 4, comma 4, 6 e art. 8).
"Valutazione" in italiano ancora rimanda ad un processo libero, critico e conoscitivo, il "vagliare" appunto.
Non è questa la "valutazione" legiferata dall'autonomia.
Nulla nella nuova scuola sembra poter avere senso se non c'è valutazione: finale, in itinere, formativa, sommatoria. E connesso alla valutazione è nato il sistema dei debiti e dei crediti. La terminologia bancaria (debiti, crediti, offerta, spendere, accumulare, ecc.) rende da sola la miseria del pensiero pedagogico che l'ha partorita e la distanza fra queste istanze, del tutto estrinseche a qualsiasi processo di apprendimento e di insegnamento, davvero extrapedagogiche, e la vita concreta di un insegnante con le sue classi.
Su queste inutili tematiche è cresciuta, all'ombra dell'università, una scienza infelice, la docimologia.
Tanto più infelice per quel suo ostinato porsi come scienza esatta, o meglio "divina", perché -unica rimasta, all'epoca di Popper, Einstein e Eisenberg- non sembrerebbe sapere contemplare la propria relatività e fallibilità.
Ma non mi dilungo perché nel mondo della scuola -non ancora nei ministeri e nelle facoltà di pedagogia- la docimologia è abbastanza nota per la sua particolare idiozia.
Rimando anzi per questi temi all'esemplare analisi del già citato libro di Massimo Bontempelli. Corollario della centralità della valutazione è l'ossessione documentativa, che pervade le nostre scuole. Noi abbiamo persino una figura obiettivo addetta alla documentazione.
Il secondo universale garantito dall'autonomia è collegato alla valutazione. Anzi per certi veri la illumina, perché almeno si capisce a cosa serve. E' la flessibilità (art. 4, punto 6, del Regolamento dell'autonomia), intesa come "percorsi formativi" a modularità certificabile.
I saperi, il sapere va spezzettato in competenze (art. 8 del Regolamento), conoscenze e capacità, tutte nominabili, conoscibili, descrivibili, da parte dell'insegnante e della scuola, passibili inoltre di essere messe in sequenza o assemblate (sembra si parli di imballaggio e di container) e con obbligo di certificazione.
E' questo che la scuola "offre", questa è l' "offerta formativa" dei POF.
Emerge qui una penosa idea del sapere, tutta produttivistica e taylorista. E' questa forse la vera privatizzazione della scuola: quella che ha messo la cultura d'impresa al posto di una pedagogia, in mancanza di una pedagogia, tralasciando tutto quello che la buona pedagogia di questo paese e di molti settori della stessa scuola pubblica avevano costruito in questi anni. Come si vede, l'autonomia non è stata affatto quel contenitore vuoto che da tante parti si pretendeva (e forse si sperava).
Anzi è proprio su questo piano che l'autonomia è in grado di incidere profondamente nella vita quotidiana della scuola; lo ha già fatto: proprio sul piano della didattica e della vita quotidiana. In questo senso la più "organizzativa" fra le leggi riformiste (la apparentemente più lontana dalle classi) manifesta intera la sua forza maggiormente coercitiva proprio per le clasi stesse, perché obbliga il processo di apprendimento e di insegnamento ad uniformarsi a modelli rigidi, così rigidi ed indiscutibili da assomigliare molto ad una didattica tecnocratica di regime, rappresentata appunto dagli universali che ho tentato di descrivere. Malgrado i pur importantissimi richiami, contenuti nell'articolo 4 del Regolamento dell'autonomia, al "rispetto della libertà di insegnamento" e, nell'articolo 3, laddove si parla del POF, al riconoscimento dell'esistenza "di diverse opzioni metodologiche anche di gruppi minoritari" di insegnanti che andrebbero valorizzate, ebbene malgrado questi richiami, l'impianto didattico-pedagogico, contenuto senza mezzi termini nella legge e nel regolamento applicativo che la rende operante, davvero sembra prefigurare una potente didattica unica, dispiegata poi pienamente anche nell'esame di stato (che ha avuto evidentemente valore didattico retroattivo), e potenziata sia dalle facoltà di pedagogia, sia dai potenti istituti di ricerca collegati al Ministero e alle suddette facoltà (CEDE, IRRSAE, ecc.) che sovrintendono alla formazione in servizio, alla produzione e circolazione di materiale didattico, tutto indirizzato in maniera uniforme e compatta verso questo neocomportamentismo docimologico e verso la pervasiva centralità delle procedure di valutazione.
E se appare assai importante che la legge ribadisca, come garanzia ai dissenzienti, la "libertà di insegnamento" (garanzia costituzionale) e in generale l'esistenza possibile di altre opzioni didattiche, appare assai difficile nella realtà che questo pluralismo si dispieghi poi davvero liberamente nelle scuole, operato dal singolo o dal singolo collegio nell'elaborazione del POF. Pare più probabile che avvenga ciò a cui siamo abituati: una acquiescenza con lamentazioni senza effetto.
Il tempo di sperimentare il nuovo, inteso come diverso rispetto al modello proposto dal ministero, nelle nostre scuole è davvero finito. Il nuovo è l'innovazione, la modernizzazione a modello unico, ed è già qui.


NOTE

(17) Antonio La Penna, Sulla scuola, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 147.

(18) Antonio La Penna, op. cit., p. X.

(19) (A cura delle organizzazioni imprenditoriali VOI-Austria, DA-Danimarca, MEDEF-Francia, BDA-Germania, CONFINDUSTRIA-Italia, VNO-NCW-Paesi Bassi, CBI-Regno Unito) Per una scuola di qualità. Il punto di vista degli imprenditori. Documento presentato ai Ministri dell'educazione e del lavoro dei paesi dell'OCSE, in occasione della "OECD Youth Employment Conference 2000", promossa dal Department for Education and Employment (DfEE). Londra 8 febbraio 2000, rinvenuto sul sito web del quotidiano "La Repubblica", p. 10.

(20) Ibidem, p. 12.

(21) Ibidem, p. 6.

(22) Legge 10 febbraio 2000, n. 30, Legge Quadro in materia di Riordino dei Cicli dell'Istruzione, art. 3: "La scuola di base ha la durata di sette anni".

(23) Maria Luisa Boccia, Intervento tenuto al Convegno nazionale "Una scuola per la cittadinanza…", cit., (testo inedito).

(24) Decreto del Presidente della Repubblica n. 275, Regolamento recante norme in materia di Autonomia delle istituzioni scolastiche ai sensi dell'articolo 21, della legge 15 marzo 1999, n. 59, Roma, 8 marzo 1999.

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