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2. Il consenso negato

Secondo un dossier pubblicato da Tuttoscuola, che si interroga sull'atteggiamento dei docenti italiani "verso il cambiamento in atto" (ma è di un anno fa) soltanto il 35% dell'intera categoria si collocava sul versante dei "nettamente favorevoli alla riforma" (3).
Con variazioni più o meno grandi sulla scala delle disillusioni, il resto della categoria (il 65% degli insegnanti), sia pure per ragioni differenziate, non condivide (nel duplice senso di non apprezzare e di non rendere vitale) il turbinoso movimento innovativo in atto nella scuola italiana.
Tenendo conto che si tratta di dati precedenti al movimento degli insegnanti contro il concorsaccio, si sarebbe indotti in maniera impressionistica ad aumentare anche questa già pur alta percentuale di dissenzienti. Il concorsaccio infatti ha reso palese agli occhi dell'intera opinione pubblica ciò che nelle scuole già sui respirava: lo scollamento profondo degli insegnanti dalla politica scolastica del governo.
Ricordo qui, per amore di cronaca, che la vicenda del "concorsaccio" (così lo ribattezzò la GILDA) è culminata nella manifestazione a Roma del 17 febbraio 2000, che è costata tra l'altro -ma solo per ragioni elettoralistiche, non per una compresa esigenza di rivedere le proprie linee guida- la poltrona al ministro Berlinguer, dopo le elezioni amministrative, lui che è stato il grande artefice delle riforme, ma che aveva, assieme ai sindacati confederali CGIL, CISL e UIL, firmato il famigerato nostro contratto e quell'art. 29 (il "merito" retribuito dei pochi).
Singolare tuttavia che, tra i numerosi sondaggi di opinione, quelli relativi al consenso-dissenso suscitato dalla politica scolastica governativa siano così vistosamente assenti dal discorso pubblico. In ogni caso, anche se questi dati un po' vecchi (che ho trovato) meriterebbero ulteriori scomposizioni quantitative e supplementi di riflessioni qualitative per descriverne meglio le caratteristiche, tuttavia appare già di per sé assai significativo che la stragrande maggioranza delle docenti e dei docenti italiani (ripeto: il 65%) vivano una dimensione di forte estraneità, quando non di aperta ostilità, verso i processi di riforma in atto.
La vicenda del "concorsone" appare dunque periodizzante. Ha come scoperchiato la pentola del disagio profondo ed antico di una categoria, categoria peraltro riconosciuta poi unanimemente ,a parole, come vitale per l'intero paese oggi, proprio per le funzioni che ricopre: l'educazione delle nuove generazioni in questo inizio di millenio.
Se c'è infatti un elemento su cui tutti concordano, Confindustria e Ministero e media, governo e opposizione, ma anche numerosi collegi docenti e le stesse nostre associazioni professionali, è che nell'ultimo scorcio del '99 si siano disegnati cambiamenti enormi, che vanno da una globalizzata economia di mercato, con enormi conseguenze planetarie, che sono oggi sotto gli occhi di tutti e che coinvolgono decisamente anche la scuola, fino alla messa in opera di mutamenti "nel modo in cui si creano e si elaborano le nostre conoscenze, le nostre idee e le nostre informazioni" (4), che portano ad "effetti profondi non solo sul contenuto delle conoscenze, ma sul modo in cui sono organizzate, sulla loro forma" (5).
Ognuno può ben misurare come questa "terza fase" della "storia del conoscere" apra per la scuola una stagione di ampie sfide.
Tuttavia, malgrado l'istruzione venga enfatizzata come bene strategico per il lavoro e lo sviluppo economico, quindi cruciale per lo sviluppo del paese, cresce tuttavia un profondo disagio fra gli insegnanti, il senso di un deterioramento del proprio prestigio professionale e, ad una insoddisfazione profonda per la miseria della propria retribuzione, si affianca la percezione di un'acuta incertezza verso il proprio ruolo.
Il concorsone appare periodizzante nelle nostre vicende anche per un'altra ragione: fino all'anno scorso l'opposizione alle riforme scolastiche in atto era presente ma timida. I docenti contrari, gli oppositori/trici, venivano presentati (forse alcuni si sentivano proprio così) come i più vieti rappresentanti di un immobile conservatorismo: gentiliani, passatisti, forse addirittura favoreggiatori delle destre.
La pentola del concorsone ha fatto emergere invece l'anno scorso una opposizione larga, diffusa e consapevole, anche a sinistra, non più ostaggio della paura dell' "uomo nero". La felice espressione è di Severino Saccardi, che ha accusato l'anno scorso, dalle pagine del "Manifesto" il ministro Berlinguer di "esorcizzare le posizioni scomode" degli oppositori alla riforma evocando la minaccia delle destre (6).
Tuttavia dopo la battaglia vinta per il concorsaccio -anche quella vinta solo molto parzialmente, perché gli aumenti di merito sono sempre previsti nel preaccordo firmato dai confederali poche settimane fa- l'opposizione alla riforma, opposizione di chi crede in una scuola pubblica forte e fortemente centrata verso i diritti di istruzione connessi alla cittadinanza -per intenderci una scuola pubblica non delle "tre i" berlusconiane: inglese, informatica, impresa- ebbene questa opposizione, pur essendosi conquistata un posto nel discorso pubblico, non ha trovato ancora un respiro forte e politicamente fattivo.
Sono usciti libri importanti (La Penna, Schiavone, Bontempelli, Rossi-Doria), qualche intellettuale e molta stampa avvertita ("La Repubblica", "L'Indice", ecc.) ha incominciato a guardare criticamente ai processi riformatori in corso nella scuola; si tengono convegni in cui anche il dissenso trova una sua espressione. Ma la mia impressione è che chi detiene le diffuse leve di potere al ministero, al Cede, nelle sedi ex provveditoriali, all'IRRSAE, nelle infinite sedi del ministero in cui si firmano protocolli d'intesa con associazioni di ogni tipo, sia mosso da una logica molto uniforme e compatta e non tenga in alcun conto queste voci.
Se il linguaggio ministeriale appare per certi versi modificato, come Marina Di Bartolomeo mette in evidenza in una analisi comparata dei documenti che riguardano il riordino dei cicli, tuttavia "l'impianto nella sostanza non è cambiato" (7).
La condivisibile e accattivante prospettiva di una scuola con un sapere forte e disinteressato per molti, svincolata dalle esigenze produttive ed attenta alla formazione di persone dotate di un forte spirito critico e di un alto possesso di sapere, come migliore garanzia per un pieno esercizio dei diritti di cittadinanza, questa scuola -che era sparita del tutto dalla metà degli anni'90 dalla "letteratura ministeriale"- è oggi sbandierata in alcuni documenti ministeriali. Ma bisogna leggere bene e non farsi ingannare. Questa scuola, questa buona scuola, che ci avrebbe fatto aderire con speranza ed entusiasmo al movimento riformatore è in realtà l'opposto del modello aziendale che in realtà va per la maggiore e che è stato ormai pienamente garantito dal complesso delle leggi già in atto, soprattutto da quelle riguardanti l'autonomia.
Le oscillazioni schizofreniche del Ministero tradiscono incertezze e policrazie, nel migliore dei casi; strumentalizzazioni elettoralistiche e contentini nel peggiore. Cito, a questo proposito, come esempio del mai venuto meno amore aziendalistico, un recente documento del Ministero, firmato da Tullio De Mauro, dedicato alla "qualità nel sistema dell'istruzione" (8). Si tratta di una serie di direttive per attuare nelle scuole il Progetto Qualità (qui sempre scritta con la maiuscola!), basato su tre protocolli d'intesa stipulati fra il Ministero e la Confindustria fra il 1990 e il 1998, in cui si attuano "forme di cooperazione tra il sistema scolastico e il sistema imprenditoriale", "nella consapevolezza che la scuola, per rispondere nella maniera più idonea alle attese ed aspettative della società civile, non può essere lasciata sola, ma va adeguatamente sostenuta, indirizzata ed incentivata" (9) dalla Confindustria appunto che è chiamata ad esportare nelle scuole le culture del marketing e la gestione d'impresa.
Il Progetto Qualità è in corso in varie scuole della penisola. Il nostro preveggente ministero lo ritiene particolarmente utile "come laboratorio per lo studio e l'approfondimento dei rapporti tra reti di scuole e sistema produttivo, tra autonomia gestionale e responsabilità nell'offerta formativa" (10). La cultura, il sapere, i saperi spariscono, sacrificati al nuovo deus ex machina della scuola italiana che è diventato il "territorio", non come ricchezza di sociale e di società civile, ma come contenitore di imprese e di esigenze produttive cui piegare la scuola.
Continuo a citare il documento sulla qualità (minuscola), anche per darvi un saggio del linguaggio manageriale, da "gestione d'impresa" che è tuttavia in questo caso completamente fatto proprio dal Ministero.
Ecco come il Progetto Qualità intende dispiegare i suoi benefici effetti sulla scuola italiana: appare "di tutta evidenza l' attualità del Progetto Qualità, che presenta le caratteristiche e i requisiti perché gli operatori scolastici interpretino ed attuino nel senso giusto (sottol. mia) le profonde innovazioni che stanno interessando il mondo dell'istruzione e della formazione" (11).
E' davanti a questa frana culturale, ancora prima che dinanzi alla rovina del proprio ruolo sociale e intellettuale, che il 65% degli insegnanti (ma forse assai di più) dissente dalla piega che hanno preso le riforme.
Ma forse neanche questo importa tanto ai nostri governanti, che tutto hanno fatto fuorché promuovere un confronto serio fra gli "operatori della scuola" (come ci chiamano loro). Sembra tristemente che l'opinione degli insegnanti conti solo sotto l'emergenza delle elezioni. Voglio qui ricordare un rilievo sconcertante dell'ispettrice ministeriale Elena Bertonelli, una delle autrici del Regolamento sull'autonomia. Durante un corso di aggiornamento dal promettente titolo "Nuove parole e nuovi metodi", promosso dal Ministero anche con l'auspicio della Società italiana delle storiche (tenutosi a Bacoli l'anno scorso), fu fatto notare all'ispettrice l'esiguità del sostegno alle riforme scolastiche: il famoso 35%.
In molti pensavamo che le riforme della scuola o si fanno insieme con gli insegnanti o non si fanno (come molti capitoli della storia della scuola dimostrano). Ebbene la nostra, la mia era un'idea assai ingenua. Esistono anche delle riforme che non necessitano del lavoro di tutti, ma solo di direttrice forti e di esecutività diffusa, pur dissenziente. L'ispettrice affermò infatti che il 35% di consensi andava benissimo, che se fosse stata questa la vera percentuale lei ne sarebbe stata assai contenta.
Siamo in presenza di un corpus di riforme che va avanti anche senza il consenso attivo di una fetta maggioritaria di insegnanti. Non c'è bisogno del consenso: basta eseguire, compilare, fare puntualmente tutte le verifiche, non cercare un senso e tacere. Brontolare è consentito, purché lo si faccia nelle ore di buco o tra un progetto e un altro, nei corridoi.


NOTE

(3) La notizia è riportata in un trafiletto di poche righe, nella rubrica Brevi e brevissime della rivista "Insegnare" (mensile del CIDI), n.1, gennaio 2000, p. 7.

(4) Raffaele Simone, La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. VII.

(5) Ibidem, p. XI.

(6) Severino Saccardi, Cambiare anziché decostruire, "Il Manifesto", 21 marzo 2000, p. 20.

(7) Marina Di Bartolomeo, Duplicità della riforma, "Ecole", n.1, gennaio 2001, p. 12.

(8) Ministero delle Pubblica Istruzione, Linee guida per la diffusione della qualità nella scuola. La qualità nel sistema dell'istruzione e il relativo percorso, Roma, (s.d.). Devo la segnalazione di questo documento a Guido Armellini che ringrazio.

(9) Ibidem, p. 1.

(10) Ibidem, p. 4.

(11) Ibidem, p. 8.

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