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8. "La vera scuola da Palermo ad Aosta"(42)

Tra le cose importanti che avvengono nello stare a scuola, è rimasta muta la dimensione centrale del parlato.
Il parlato a scuola è e resta non solo "veicolo di trasmissione di conoscenza", ma "il più straordinario rivelatore di atteggiamenti, caratteri, credenze individuali" (43), idioletti, culture altre dalla nostra, di adulti e adulte in relazione stabile con un'altra generazione. Come nella psicoanalisi, nell'amicizia, nei rapporti di coppia, il parlato a scuola, con l'ascolto reciproco che comporta e il relativo sviluppo dell' "arte di ascoltare", crea civiltà, realizza interazione educativa.
Nell'analisi e nella catalogazione dei destini delle forme di sparìere del nostro tempo, il parlare a scuola è considerato dal linguista Raffaele Simone "una autentica porta per accedere alla conoscenza, specialmente a quella parte profonda delle persone" (44).
Codificare questo tipo di parlato, in una sorta di delirio istituzionale di normazione, sarebbe solo un danno perché ne danneggerebbe la condizione essenziale: la libertà di esprimersi. Inoltre ciò non servirebbe a nulla, nemmeno nella forma di dargli un'ora e un luogo, un setting, come dicono gli psicoanalisti. Viceversa che nelle sedute di psicoanalisi, il parlato scolastico, il suo valore e il suo farsi, è costituito solo in parte da uno spazio-tempo codificato e formalizzato: l'ora di lezione e le altre occasioni istituzionali, consigli di classe, ricevimento degli studenti, ecc.
Esistono invece -quando le relazioni educative funzionano- altre occasioni di "parlato", informali e casuali in ampia varietà, di cui molti e molte di noi hanno imparato a fare tesoro, come un'arte necessaria del nostro lavoro (45).
Sarebbe difficile negare che il parlato, il sapersi parlare tra diversi -perché è questo che accade a scuola-, quando c'è buona scuola, non rappresenti una manifestazione di competenza relazionale ed anche di professionalità.
Si può promuoverla, la competenza relazionale, con sapienti attenzioni. Ma sarebbe invece vano pretenderla a priori o programmarla.
E' questo un mestiere, proprio per la sua natura squisitamente comunicativa, molto legato non solo a quello che ciascuno sa, ma a quello che ciascuno è: con le proprie credenze, i propri sistemi di valori, i propri vissuti di socialità, la propria curiosità e disponibilità ad incontrare altri ed altre, a conoscere altre culture.
Nella mia esperienza, tanto più in un ambiente educativo le relazioni sono buone nell'insieme, tanto più, come in un circolo virtuoso, possono realizzarsi crescite culturali ed agio per grandi e piccoli. Ma vale anche il contrario naturalmente.
E' quello che Norberto Bottani, in un libro di molti anni fa, chiamava "il programma ombra di un istituto", più implicito che esplicito (certo non compare nei POF), ma anche più influente di quanto di solito si voglia ammettere.
"Il clima sociale di un istituto dipende da tutta una serie di fattori difficilmente identificabili: lo stile educativo, la personalità del preside, le relazioni fra gli operatori, l'organizzazione interna".
Inoltre come rileva Bottani, ma come è facilmente intuibile appena si mette piede in una scuola, questo "programma ombra", cioè la socialità esistente in ogni scuola, ha anche incidenza sul successo scolastico, "senza però che si riesca -avverte Bottani- a dare un'accurata descrizione ed interpretazione di tali interferenze"(46).
Queste che Bottani chiama "interferenze" costituiscono appunto le molte variabili di un sistema relazionale complesso, come è la scuola. Trovo interessante ed ecologico questo arrestarsi del pedagogista dell'OCSE al di qua della descrizione del sistema delle relazioni a scuola, perché egli sembra avvertire che descrivere in questo caso equivarrebbe a semplificare.
La competenza relazionale non si apprende. E' insegnabile? Non nel senso etimologico della parola: non può essere "impressa nella mente", ma può essere mostrata, indicata. E poi si può attendere con pazienza che la forza dell'esempio venga riconosciuta e assunta. Si può auspicare un procedere per contagio di virtù, non molto di più.
Codificare è vano e un po' stupido, come certe "griglie" che sono diventate di moda e in cui l'esistente, sulla scia del più vieto comportamentismo, è notomizzato in parti sempre più piccole. Mentre guardiamo queste disiecta membra, sappiamo che ogni singolo segmento può anche essere vero, ma da solo è irrilevante e intanto l'insieme -che è l'essenziale- sfugge, perché la sostanza relazionale è sì decisiva, ma non segmentabile.
Quanto di importante è contenuto nelle relazioni pedagogiche viene tanto meglio colto, quanto più aumenta la complessità dei linguaggi per indicarlo: nelle narrazioni, per esempio, non certo nei prontuari.
Nelle (belle) narrazioni, i diversi piani di consapevolezza dell'autore-insegnante che riflette e racconta insieme, offrono un intreccio non indigesto che alterna interpretazioni a sequenze narrative e che popola di volti la pagina.
E' quello che accade nei grandi racconti pedagogici del secondo novecento italiano: da Lettera a una professoressa, alle memorie di scuola di Mario Lodi (Un paese sbagliato e Insieme), fino a certi libri di Domenico Starnone (Ex cathedra, Solo se interrogato), di Gianni Rodari o di Ersilia Zamponi e altri.
In questi testi c'è un pensiero sulle relazioni educative: emerge una teoria dalla concretezza narrata del quotidiano.
Se non si sa scrivere -così come non tutti gli psicoanalisti possono arrivare al vigore stilistico di Freud- si può fare il proprio mestiere e basta. Almeno non si pretenda di ingabbiare ciò che si vive in rappresentazioni asfittiche e mortificanti.
Ci si possono appuntare propositi, tenere un taccuino. Si possono scrivere lettere al collegio e, perché no, ai propri alunni. Si scrivono verbali, progetti, piani di lavoro, domande, schede, relazioni di ogni genere a scuola.
Ma si dovrebbe evitare di pensare che certi strumenti assomiglino alla parte importante del nostro lavoro. Anzi spesso lo snaturano e lo rendono arido.
La produzione di inutili cartacce è uno dei nostri più inascoltati lamenti. Svuotiamone almeno l'importanza. Non servono a nulla e non cambiano nulla.
Si dovrebbe invece imparare ad accettare la natura complessa e labile della nostra esperienza di lavoro.
La vita vera a scuola è molto più della sua burocrazia.
E' il luogo di un incontro non estemporaneo fra generi, generazioni e culture. Può giovarsi di una ricchezza straordinaria, solo a patto di assumere come centrale il piano delle relazioni educative, e di non considerarne residuale né la varietà, né la imprevedibilità, né la dimensione necessariamente legata alla soggettività.
Per fare questo bisogna rinunciare all'ansia omologatrice, che pervade tutta la normativa scolastica, tanto più quella recente.
Il cuore della scuola è un concreto processo vivente. La sua natura è dialogica intersoggettiva. L'incontro è fra mondi, culture e lingue diverse. Occorre accettare il rischio e la fatica di quest'avventura, una navigazione a vista, incentrata sulla triangolazione fra gli esseri umani adulti, i giovani e il sapere.
Insegnare in questo contesto diventa un complicato work in progress, un'opera aperta, fatta di un continuo immaginare un itinerario e un continuo saggiarne, nel contatto vitale con le giovani generazioni, lo statuto provvisorio, delicato, necessariamente in cambiamento.
Stare lì con quei ragazzi e quelle ragazze tutti i giorni, mettere in comune con loro ciò che si sa, ciò che si è e ciò che si pensa, crea legame sociale e cultura comune. Quando ci riusciamo è un'opera civilizzatrice.
E intendiamoci bene, non crea cultura per loro, ma anche per noi, per tutti. Noi adulti/e usciamo modificati dalla conoscenza dell'altro che si realizza a scuola. Talvolta ne siamo sconcertati, talvolta addolorati, difficilmente indifferenti. Se c'è buona scuola si creano saperi che diventano condivisi. E se c'è buona scuola circolano emozioni che devono essere nominare e governate, le nostre e le loro, e categorie etiche, e responsabilità e fiducia.
Roba delicata che ciascuno di noi maneggia con cura, come può, sapendo socraticamente di non essere onnisciente, di non potere vedere tutto neppure dei processi che mette in moto, accorgendosi di sbagliare (forse nemmeno sempre ci si accorge!), diffidando di chi mostra troppe certezze e non affidandosi, per dignità professionale, a semplificatorie ingegnerie didattiche, che ingombrerebbero la strada.
Le nostre risorse sono tutte dentro la relazione pedagogica. Solo in questo modo a scuola si costruiscono territori, si dà senso alla socialità comune, si lavora indirettamente con i codici simbolici.
Su questa strada "ecologica" di rispetto e di cura per lo statuto dei rapporti viventi, si tenta di offrire alle nuove generazioni uno spazio e un tempo "guidati" di cittadinanza vissuta, attraversato da consapevolezza di sé, costruzione sensata di una cultura condivisa e volontà di offrire strumenti di integrazione sociale.
Innanzitutto dovremmo essere capaci di "stimolare nei giovani il libero sviluppo di qualità e talenti" (47). Ed oggi anche di costruire una cultura critica capace di muoversi in un mondo saturato caoticamente da informazioni.
"La scuola non è affatto il mondo -sono parole di Hannah Arendt- e non deve pretendere di esserlo; è semmai l'istituzione che abbiamo inserito tra l'ambito privato, domestico, e il mondo, con lo scopo di permettere il passaggio dalla famiglia alla società La frequenza scolastica non è richiesta dalla famiglia, ma dallo stato, ossia dal mondo pubblico; quindi rispetto al bambino la scuola rappresenta il mondo anche senza esserlo di fatto" (48). E noi, come adulti e adulte della scuola, investiti di questa enorme "responsabilità politica" di incarnare il mondo agli occhi delle nuove generazioni, dovremmo non cedere alla tentazione di qualche "formula che mondi possa aprirti", ma ancorarci ad una pedagogia aperta, che non perda mai di vista l'irriducibile singolarità dei soggetti umani.
E anche se di questi tempi, come il Poseidon, anche il mondo della scuola sembra capovolto, noi dobbiamo fare come quei naufraghi intelligenti: accorgercene.
Se c'è qualche probabilità di salvezza, come insegnano i film di catastrofe, essa viene sempre dal capire davvero come stanno le cose.


NOTE

(42) Gualtiero Via, Amministrazione e formazione del vuoto a perdere, "Il Manifesto", 15 marzo 2000, p. 21

(43) Raffaele Simone, op. cit., p. 45.

(44) Raffaele Simone, op. cit., p.45.

(45) Marta Baiardi, Storia di un piccoletto, in Vita Cosentino e Giannina Longobardi (a cura di), Pubblica, libera e leggera. Atti. Terzo incontro nazionale del movimento per un'autoriforma gentile della scuola, Catanzaro, Vincenzo Ursini editore, 1999, p. 67.

(46) Norberto Bottani, La ricreazione è finita. Dibattito sulla qualità dell'istruzione, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 86.

(47) Hannah Arendt, La crisi dell'istruzione, sta in: Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 1991, p. 246.

(48) Hannah Arendt, op. cit., p.246.

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