Intervista
a Vita Cosentino di Giovanna Romualdi,
Il
foglio del paese delle donne n°11.12/2002 http://www.womenews.it
In
attesa della riforma, malgrado il clima di incertezza e confusione, nella
maggioranza delle insegnanti permane la soddisfazione per il proprio lavoro.
Negli
ultimi anni, in pieno va e vieni di riforme della scuola, l’Istat è stato
coinvolto dal Ministero dell’istruzione in una serie di sondaggi fra
insegnanti, genitori e studenti per capire quale fosse il grado di comprensione
di provvedimenti già presi e il possibile gradimento di altri ipotizzati.
Nel quadro di grande incertezza e
confusione che regna nel mondo della scuola, emergono però alcuni dati molto
netti. In particolare colpisce come - si potrebbe dire malgrado tutto - emerga,
a livello di insegnanti, un elevato
grado di soddisfazione per il proprio lavoro. La maggioranza del campione
raggiunto indica quali fattori positivi: la passione per l¹insegnamento, la
relazione con bambine/i e studenti, la creatività da dispiegare in questa
relazione. Sono soprattutto le donne e in particolare quelle che lavorano con
le fasce d’età più basse (materne ed elementari) ad esprimere questa passione e
questa soddisfazione.
Con Vita Cosentino, partiamo da
questo flash statistico.
Cosa pensi di questi dati, ti meravigliano o
confermano qualcosa a te già noto, anche a partire dalla tua esperienza con
“quelle e quelli dell¹autoriforma”?
I dati dell¹ISTAT mi meravigliano
e mi confermano. Certamente ribaltano le rappresentazioni che da decenni prevalgono
sulla stampa e che sono all¹insegna del catastrofismo, per cui tutto va male,
nelle scuole c’è frustrazione e l’insegnamento è vissuto come un lavoro
impiegatizio. Fanno invece vedere in chi insegna una forte motivazione e
passione per il proprio lavoro e un¹idea di soddisfazione che non è legata ai
criteri che oggi sembrano dominanti come la carriera, il denaro, il successo,
bensì a elementi squisitamente umani come la relazione con studenti e
studentesse: emerge la passione per l¹incontro con le persone giovani, che
siano bambini e bambine o adolescenti. Ha del meraviglioso che nelle scuole –
nonostante tutto - ci sia una così grande tenuta sul senso della scuola reale.
Anche per me è così: insegno da
più di trenta anni nella scuola media e ancora mi incanta il momento in cui una
giovane mente prende il volo. In quei momenti anche le classi più confusionarie
e sofferenti improvvisamente tacciono, capiscono che sta capitando qualcosa di
importante che dà il senso
al nostro esserci lì tutti i
giorni, e l’energia per tornare in un luogo che il più delle volte è noioso,
irritante... ma è successo e può succedere ancora a lei, a lui, all¹ultimo
della classe. Questo tipo di soddisfazioni, come risulta dai dati, sono
espresse più dalle donne, che oggi sono la stragrande maggioranza, a conferma che un’idea di scuola
relazionale, in cui la qualità e la soddisfazione si giocano in presenza, nel
fare lì bene il proprio lavoro, nell’assistere alla crescita umana e intellettuale
di studenti e studentesse, è di matrice femminile. Niente a che vedere con la
vecchia idea di scuola come trasmissione unilaterale di conoscenze, in cu
l’altro è concepito come un vaso vuoto da riempire, che è un’idea di stampo
maschil-patriarcale, e che oggi neppure gli uomini che fanno una buona scuola
condividono più.
Mentre ti parlo, la mia
soddisfazione è anche data dal fatto che i dati Istat confermano ciò che da
anni andiamo dicendo nell’autoriforma, da Buone notizie dalla scuola
(Pratiche 98) all¹ultimo convegno Le maestre e il professore,
che si può consultare in internet (autoriformagentile.too.it).
L’insegnamento è un lavoro che ha
un grande valore nella società - lo dico
con
orgoglio - e questo noi insegnanti lo sappiamo; come sappiamo che il sapere
sulla scuola è principalmente nelle nostre mani, viene dall’esperienza viva di
donne e di uomini, chiede una continua riflessione, impegna energie mentali,
passioni e disponibilità a mettersi in gioco con chi è più giovane. La scuola è
un sistema vivente, non produce pezzi di ricambio, si occupa del vivere civile,
è del tutto improprio ispirarsi a procedure e metodi dell’azienda e del mercato
per riformarla.
In più negli ultimi decenni - e
questo processo coincide con la sua femminizzazione - le scuole hanno trovato
per forze interne, a prescindere da interventi legislativi, modi per
coinvolgere, contagiare e far prevalere la voglia di far bene il proprio
mestiere. E’ quanto risulta dall¹ultimo
Rapporto IARD (a cura di A. Cavalli, il Mulino) che dedica un intero capitolo
all¹Immagine della professione. Nella parte che riguarda la presenza o meno di
motivazione iniziale e di persistenza nell’identificazione professionale, i
motivati persistenti che nel ‘76 erano al 29%, nel ‘99 sono al 48%; mentre i
non motivati non adatti (la categoria peggiore delle quattro individuate) che
nel ‘76 erano al 37% e costituivano il gruppo di maggioranza relativa, nel ‘99
scopriamo che sono poco più di un decimo del campione. Anche questi dati
confermano che la scuola è già cambiata.
Puoi indicarci meglio cosa fa “passione”?
Quando dico passione per
l¹incontro, non intendo niente di idilliaco: in una classe di adolescenti la
parola incontro ha tutta la sua pregnanza etimologica, in e contro, conflitto
sempre aperto, ma lì c’è vita e possibilità di parola, con tutte le sue
emozioni positive e negative.
Un’insegnante porta sempre il
lavoro a casa, e non sono solo compiti da correggere, sono soprattutto
pensieri, ripassare il film della giornata, per ripensare e capire cosa dire e
cosa fare il giorno dopo. Il lavoro relazionale chiede un esserci consapevole e
una capacità di tenuta, soprattutto se si tratta di adolescenti. Una classe non
è quello stupido schema per fasce di livello alto, medio, basso previsto dalla
didattica astratta; una classe è un corpo vivo, con un’alchimia di relazioni
sempre diversa e sempre in movimento, soprattutto oggi che le generazioni
giovani sono profondamente mutate e non stanno nelle cornici disegnate dalle
generazioni precedenti. Quello che capita quotidianamente oggi è che se l¹insegnante
non sa instaurare una relazione, non tocca con la cultura anche le loro
emozioni, non suscita il brillio delle intelligenze, non mette in gioco
un’autorità personale, non riesce a fare lezione, semplicemente non
l¹ascoltano. Per questo la scuola va inevitabilmente in una direzione
relazionale, perché è il modo migliore - forse l’unico in un momento in cui
tutti i sistemi scolastici occidentali sono in crisi - per ottenere dei
risultati.
Quanto influisce un patrimonio di pensiero e di pratiche di donne?
Molto. Per una storia tutta
italiana che costituisce una vera e propria originalità anche nel panorama
europeo. E¹ una storia in gran parte da raccontare, ma che so profondamente
anche attraverso le mie vicende biografiche.
In Italia la ricerca fatta
direttamente da insegnanti è sempre stata molto viva: ha prodotto associazioni,
riviste, movimenti, libri. C’è al riguardo un patrimonio grande, dalle maestre
dell¹inizio del ‘900, a Maria Montessori, all’Erba Voglio, a Don Milani, al
Movimento di Cooperazione Educativa; e da quando la scuola si è femminizzata
questa riflessione già presente si è incrociata nelle storie personali di
insegnanti come me con una consapevole riflessione femminile. Il movimento
delle donne ha avuto una grande partecipazione di insegnanti - che sono un ceto
medio intellettuale - parecchie poi hanno esplicitamente portato con la
Pedagogia della differenza
a scuola le pratiche politiche di
relazione, mentre entravano in circolazione liberamente le idee, le ricerche, i
libri... tutto ciò che veniva prodotto nei centri di elaborazione delle donne.
La scuola italiana è stata influenzata in modo diffuso dal patrimonio
di pensiero e di pratiche di donne. Porto un esempio di questa originalità. In
Inghilterra il governo Blair l¹anno scorso, di fronte a episodi di teppismo
giovanile, ha autorizzato le scuole a dare in classe ai ragazzini troppo
agitati dosi di tranquillanti, di Ritalin e Esquasym, così come ha messo il
coprifuoco per gli adolescenti. Io vedo in questi provvedimenti la rinuncia a
educare e a fare lavoro di civiltà e un’impostazione di stampo militaresco -
patriarcale che non fa che aumentare la violenza del conflitto. In Italia
invece nei quartieri spagnoli di Napoli, di fronte a problemi simili, hanno
pensato ad attivare i maestri e le maestre di strada, che vanno a cercare in
strada i ragazzi e le ragazze che hanno abbandonato la scuola, per dare
un’altra possibilità. In questo modo differente di affrontare i problemi si
vede che la direzione del cambiamento va verso un senso relazionale della
scuola, verso la costruzione di un rapporto di fiducia tra chi insegna e chi
impara, verso un incontro tra esseri umani diversi e imprevedibili.
Quali sono i rischi di dispersione di questo patrimonio connessi con le
modifiche nel lavoro scolastico introdotte dagli ultimi contratti o con i
provvedimenti di riforma annunciati?
Il rischio principale che vedo è
di natura simbolica: o questo cambiamento di senso che tante insegnanti hanno
costruito con la loro presenza pensante e che oggi è condiviso anche da alcuni
uomini che ci sono arrivati attraverso altre strade, fa senso, diventa senso
comune e alimenta la voglia di inventare e dà forza a chi è a scuola -ed è
questa la scommessa dell’autoriforma - oppure c’è un forte rischio di dispersione
e di logoramento. Quando dico fa senso intendo dire che orienta anche chi fa
comunicazione, chi scrive su giornali e riviste, chi pubblica libri, chi invece
troppo spesso cade in un cliché di denuncia o in interpretazioni precostituite,
invece di indagare con cura e affetto ciò che sta emergendo.
Nel rapporto IARD che già citavo
l’autore nell¹analizzare i dati, preferisce ricorrere a categorie “meno
imbarazzanti” per il pensiero maschile, ma che si sovrappongono malamente, e a
tratti con una certa arroganza, a quello che i dati, pur nelle strettoie
dell¹impostazione, vorrebbero e potrebbero dire per se stessi. Un esempio: sia
per la concezione personale della figura dell’insegnante, che per la sua
definizione ideale, circa la metà del campione la intende come una persona che
svolge un’importante funzione sociale, mentre per chi interpreta la
contrapposizione fondamentale ipotizzata era quella tra impiegato e
professionista, per cui troviamo commenti di questo genere: mentre quelli
ancora maggiormente attardati su una visione del docente come persona che
svolge un¹importante funzione sociale rimangono gli insegnanti della scuola
media: questi ultimi dimostrano una certa confusione...
Il secondo rischio è dato dal
fatto che gli interventi legislativi hanno come tratto persistente il fatto di
non ascoltare chi insegna, di non tener conto dell’autoriforma che la scuola ha
già fatto indirizzandosi in senso relazionale e non l’assecondano, anzi
producono danni introducendo dispositivi come la competizione, l’ossessione per
la valutazione e l’organizzazione che distruggono - l’ho visto capitare nella
mia scuola con le funzioni obiettivo -
il tessuto relazionale preesistente. Suscitano anche in me delle
emozioni negative come il risentimento che non è un buon consigliere e può
portare a disinvestire dalla scuola quell’in più di passione che la fa
funzionare e la rende veramente pubblica.