pubblicato su “Il foglio del Paese delle Donne” del 28 gennaio 2002 con il titolo”I termini di una espropriazione”

 

LA SCUOLA E’ UN LUOGO DI DONNE?    

Di  Renata Puleo

 

 

Dal 1995 ad oggi abbiamo assistito alla progressiva costruzione del rapporto di lavoro nella scuola in senso contrattualistico. La “privatizzazione” del rapporto di pubblico impiego, che ha dato vita ai contratti, origina dal decreto n 29 del 1993. E, come spesso accade, la norma rappresenta da un lato la codificazione di un costume, di un indirizzo valoriale, e dall’altro produce, talvolta precede, i mutamenti della mentalità corrente. Ai docenti e al resto del personale della scuola, il fatto che il proprio rapporto di lavoro non fosse più “decretato” in modo verticale sembrò un’operazione di democratizzazione, dal momento che veniva sganciato dalle burocrazie ministeriali e locali. Ma, se la stagione della contrattualità apriva spazi di discussione, se laicizzava il compito degli insegnanti facendone un “nudo” lavoro, dall’altro perdeva di vista, letteralmente portava a liquidazione, tutta una cultura specifica, tipica di quella professione. Ciò che mi interessa evidenziare, è che è andato così perduto un intero patrimonio di cultura femminile, impiantato nella scuola da anni di pratica di relazioni, accese e mantenute dalle donne, parte maggioritaria del personale scolastico, con modalità originali, non conosciute in altri ambiti del pubblico servizio.

 

Malgrado le forti disomogeneità che hanno caratterizzato la qualità dell’intervento educativo e didattico nelle diverse realtà socio-culturali italiane, alcune modalità di lavoro e di meta-riflessione su di esso, risultavano emergenti almeno fino agli anni ottanta. E se non erano diffuse dovunque, pur costituivano una linea di tendenza e un riferimento culturale trainante(1). Si trattava di valori e di pratiche quotidiane, articolati su nuclei di senso pedagogici e politici. Provo ad evidenziare alcuni aspetti di quel patrimonio. La cooperazione come cifra della “produzione” del lavoro fra colleghi, fra docenti e contesto sociale; la cooperazione come potenzialità – lo insegnava Vygotskij - nei rapporti fra pari, come valorizzazione delle competenze, messe alla prova nella attività di tutorato. L’autorevolezza della parola materna nel lavoro di cura, divenuto, da residuale, centrale nell’apprendimento. In una riflessione più recente, l’ importanza della lingua della Madre, da curare e conservare per un apprendimento non violento dei linguaggi sociali. Ancora, i concetti di tempo e di spazio riletti nell’ottica dell’apprendimento coevolutivo. E insieme a tutto ciò, la consapevolezza dell’impossibilità di monetizzare tutto, in un professione dove il sapere, l’esperienza maturata,  non possono che essere anche  un dono. Certamente, ribadisco, tali classi di comportamento non sempre erano agite con uguale coscienza politica. Spesso non si sono manifestate negli ordini di scuola più elevati o hanno subito l’effetto perverso di atteggiamenti narcisistici, da artisti dell’insegnamento, da parte di alcune e di alcuni. Spesso si sono creati contesti in cui gli aspetti autoreferenziali e i difetti di tipo comunitario hanno prodotto, in molte e molti  docenti, desiderio di fuga e di laicizzazione del rapporto di insegnamento. In questo senso penso che la contrattualità e la forte spinta alla sindacalizzazione, abbiano anche contribuito a raccogliere ed ad elaborare il diffuso senso di disagio per un lavoro che rischiava la missionarietà, senza per altro godere del riconoscimento sociale che avrebbe dovuto derivare dall’essere artefici della scolarizzazione di massa. Ma con i cascami della impostazione missionaria sono andati perduti anche  i tratti di specificità della politica della differenza sessuale che segnarono la cultura della scuola fino agli anni ottanta.

 

Se esaminiamo i testi dei contratti dal 1995 ad oggi, vi troviamo parole e concetti che tratteggiano l’oscuramento e il disprezzo maschilista per il lavoro di cura tipico dell’educare e per la pratica della relazione come caposaldo di qualsiasi mutamento etico e personale.(2) Sarebbe interessante, anche se molto ambizioso, fare l’analisi dei termini utilizzati. Per ragioni di mia insufficienza  e di economia di discorso, ricordo solo - come già altrove è stato detto- che tali parole sono per lo più mutuate dal mondo dell’azienda e della produzione di beni materiali. Da alcuni opinionisti e saggisti, questa scelta è stata difesa e argomentata ideologicamente come frutto di un  orientamento efficace, efficiente, finalmente  in grado di valutare i risultati del lavoro della scuola.(3) La manovra è consistita nella equiparazione della scuola all’azienda, luogo della produttività capitalista. Che capitalismo e maschilismo marcino uniti, è quasi luogo comune. La lacerazione del tessuto delle relazioni  cooperative si è prodotta, in questo settore come nella società, anche mediante altre strategie ideologiche. Lo sfondo di tale operazione nella scuola ha del  paradossale: la meritocrazia – cacciata dagli studenti nel ’68 - riappare come valorizzazione delle competenze espresse dai docenti e mai adeguatamente premiate con benefici di carriera o anche semplicemente incentivate.

 

L’introduzione di incentivi e premi va a nutrire quel narcisismo che già - come ho detto su - caratterizzava alcuni docenti, “i più bravi”. Basta con il senso di colpa legato alle ambizioni! Via libera dunque alle manovre per la conquista del Luogo del Potere, alla produzione di ciò che contribuisce a riprodurlo. I progetti, il lavoro di ingegno di alcuni insegnanti, vengono usati come fattore di sfida ai colleghi e – ingenuamente - come regalo alla ambizione…dei Dirigenti! Il conflitto, eliminato dalle relazioni insieme a queste, ritorna sterilizzato nelle sue forme peggiori, verticalizzato, nel verso del Potere Istituito. Il conflitto è giocato nell’ambito  di un collegio docenti e nelle stanze della Dirigenza, fra i membri di staff.  Non costituisce  un fattore di creatività nei gruppi ed è così privato di ogni dimensione politica.

Su questo sfondo valoriale, vengono agite  altre manovre parziali. Si opera una netta divisione fra lavoratori per ordini di scuola, per tipologia di servizio, per compiti accettati oltre il proprio specifico. Nel tentativo di far uscire dal sommerso il lavoro intellettuale dei docenti, si procede alla monetizzazione di ogni tempo e di ogni servizio reso, spesso con retribuzioni che, se non ci fosse di mezzo il valore simbolico del risarcimento, sarebbero infamanti. Gli ATA - amministrativi, tecnici, bidelli -  vengono abbandonati ad un  destino residuale (basta considerare le retribuzioni!), quello che oggi, più chiaramente, si prospetta loro nella operazione morattiana di esternalizzazione di tali servizi. Intanto, la Dirigenza spicca il gran salto della divisione definitiva dal ruolo di precedente appartenenza e perde ogni connotazione di guida pedagogica e di coordinamento didattico.(4)

 

Se nei ranghi della Dirigenza sono relativamente più numerosi i maschi, è anche vero che il disagio è largamente diffuso soprattutto fra le donne dirigenti. È un disagio spesso non elaborato, frutto della lacerazione fra il  desiderio personale di emergere e la difficoltà ad adattarsi ad un luogo  privato della relazione fondativa fra donne. Anche le donne dirigenti nella scuola  soffrono il “tetto di cristallo” sotto cui sono costrette.(5) Non perché siano schiacciate da figure maschili emergenti al loro posto, bensì perché vorrebbero star dentro un tessuto di rapporti, giocandosi un ruolo autorevole, ma non come uomini. Contraddittoriamente, l’omologazione al maschile, come unico modello di “potere”, le spinge verso  una identità professionale competitiva, all’interno della stessa istituzione o fra istituzioni confinanti per territorio. Donne oppresse da una cultura del “dirigere e governare” che non le rappresenta in quanto donne e di cui esse non rappresentano certo la parte migliore, malgrado il dispendio di risorse personali. (6)

 

I contratti dal 1995 ad oggi hanno prodotto anche altri guasti, o in parte ne sono il frutto, quando questi originano in una mutata concezione del lavoro pubblico, in settori nevralgici. L’ analisi della stampa sindacale, ci obbliga a pensare alla moltiplicazione delle istanze decisionali, non come il risultato di una operazione di democrazia, ma come l’effetto della creazione di una pluralità di ruoli e di controparti, autoconsistenti. Mentre, agonizzanti sotto gli attacchi della destra, sopravvivono gli organi collegiali, si interfacciano fra docenti e dirigenza le rappresentanze sindacali “aziendali”, di istituto. La proliferazione delle norme che regolano i rapporti fra le parti e gli organismi, le ambiguità interpretative che moltiplicano in maniera esponenziale le occasioni di  confronto in giudizio, creano, di necessità, il sindacalismo di professione. Che questo si muti in sindacalismo di scambio, è storia conosciuta già in altri contesti del mondo del lavoro.

 

E’ necessario che  emerga con chiarezza, nella riflessione politica sulla scuola, come tutto ciò contribuisca a depotenziare il patrimonio valoriale femminile. Ma deve esser fatta luce anche sulla complicità delle donne in tutta questa operazione produttivistica, avviata nel corso di questo decennio, ben prima dello sfondamento messo in atto dall’attuale governo di destra. Le donne che non hanno potuto praticare la politica della differenza, confrontandosi fra donne sui temi del desiderio applicato al lavoro e sui mutamenti nei rapporti di cura e di amore per le creature piccole, mancano di pensiero critico sulla scuola e si lasciano dirigere da pensieri maschili. Vivono ogni “perdita di tempo”- così essenziale nei processi di apprendimento-  con senso di colpa. Si fanno prendere dall’ansia valutativa e, troppo spesso, le più giovani scalpitano per essere ammesse “nel circolo degli uomini colti”, come se l’esclusione millenaria fosse un problema di “pari opportunità”, di “quote” garantite, anche in questo caso.

 

Torna a proposito, proprio in questi giorni, uno dei temi del dibattito precongressuale della CGIL sulla necessità di una lettura dei problemi del lavoro attraverso la politica di genere. Non solo perché l’attuale trasformazione del lavoro e la riduzione dei servizi di welfare riguarda le donne più di altri soggetti. In gioco ci sono anche i rapporti interni alla stessa organizzazione, che la maggioranza vorrebbe affrontare con il rassicurante discorso delle pari opportunità. Alcune donne operanti nella funzione pubblica ammettono che non basta occupare posti di potere se i comportamenti risultano  troppo adattivi al modello di autorità maschile. Il sindacato è storicamente un luogo difficile per le donne, segnato simbolicamente dalla ideologia maschile del lavoro. E non va certo diversamente in organizzazioni nate nei servizi, dove operano in maggioranza donne, ad esempio  la scuola, come ho cercato di argomentare.(7)

 

Mi si dirà che l’occultamento della cultura delle donne non è operazione completamente riuscita e non è stata tentata solo nel “discorso” sulla scuola. Credo che sia vero. Ma, evidenziare nella normativa sulla contrattazione, in un lavoro “tipicamente” delle donne, i termini di una espropriazione culturale e professionale, penso sia una operazione politicamente utile. Infatti, quando si contratta si lavora al compromesso fra identità riconosciute. Il riconoscimento deve essere garantito da chi ha raccolto la delega alla rappresentanza. Un contratto senza questa bilateralità è una nominazione dell’Altra/o esclusivamente  dal lato del Potere

 

Note

 

1. Il fatto che l’elaborazione teorica sia stata opera prevalentemente di maestri maschi, lascia intendere come anche nel caso della scuola, abbia operato l’occultamento. Forse si può aggiungere che alle donne è più congeniale la pratica. L’attenzione per la pratica, piuttosto che per la riflessione “meta”, è stata una caratteristica del pensiero filosofico contemporaneo.

 

2. CCNL 4 agosto1995; CCNL 26 maggio 1999; CCNI  3 agosto1999;CCNL 15 marzo 2001

 

3. Si vedano a questo proposito i testi di Piero Romei (in particolare “Autonomia e  progettualità.  La scuola come laboratorio di gestione della complessità sociale” La Nuova Italia Firenze,1995)  e i contenuti dei corsi per il conseguimento della dirigenza, svoltisi nel 1999.

 

4. Il profilo del “direttore didattico” era infatti completamente diverso, soprattutto nella scuola di base. La sua specificità era centrata sulla garanzia dovuta ai piccoli studenti della bontà del lavoro educativo e didattico. Oggi, leggo su un foglio di stampa sindacale, che è bene che i “vecchi” direttori si convertano alle nuove funzioni loro richieste, abbandonando ogni tentazione “pedagogica”.

 

5. Con la locuzione “sotto il tetto di cristallo” faccio riferimento al convegno dall’omonimo titolo. Si veda la sintesi su “Il foglio del paese delle donne” n 39/40  2001, pagg 8/9

 

6. A questo proposito costituisce una lettura interessante,  coerente con quanto vado dicendo, quella dell’intesa  pre-contrattuale sulla dirigenza scolastica, datata novembre 2001, il cui testo è stato firmato in questi giorni.

 

7. Gli stralci del dibattito nella CGIL sono stati riportati da Carla Casalini su “il manifesto” del 9 gennaio; non so se riferendo testualmente o formulando una propria valutazione, Casalini scrive che la differenza di genere è “un terreno ancora sconosciuto al segretario generale della CGIL”.