GLI INSEGNANTI CONOSCONO L'ARTE
DELL'ASCOLTO?
(pubblicato su Scuola e Formazione
- l'Unità 19/01/2000) |
Nella terza elementare
dove insegno c'è una bambina rumena arrivata in Italia quest'anno.
Nei primi mesi, non capendo bene quello che stiamo facendo, Silvia reagisce
costruendo un suo mondo parallelo. Così, per gran parte del tempo
muove piccoli oggetti, disfa, mastica, getta a terra, raccoglie, colleziona
sul suo banco le cose più varie. Osservandola con l'attenzione e
il rispetto che credo debbano meritare tutti gli ospiti stranieri, ed in
particolare gli ospiti bambini, ho cercato a lungo, invano, di farla entrare
nelle nostre attività e conversazioni, visto che la lingua aveva
cominciato a comprenderla. Niente da fare. Per molte settimane ho collezionato
una serie di fallimenti. Poi, un giorno di dicembre, siamo scesi nel giardino
privato abbandonato che sta sotto la scuola. I bambini avevano molto insistito
perché volevano a tutti i costi continuare il gioco che più
li appassiona dall'inizio dell'anno: la costruzione di casette con materiali
naturali. Ciascuno costruisce la sua e l'unica regola che ho proposto è
quella di lavorare in silenzio. Conosco quanto è difficile mettersi
in relazione profonda e sentire gli spazi che abitiamo e ho sperimentato
molte volte quanto il silenzio possa essere uno straordinario alleato e
strumento per riuscire ad ascoltare. So anche quanto stupore e quanta ricchezza
creativa possano scaturire da una percezione attenta e solitaria di un
luogo naturale, anche se assai limitato. Per questo non esito a proporre
il silenzio con decisione a bambine e bambini che spesso non conoscono
cosa sia muoversi con cura e attenzione e discrezione, mettendosi in ascolto.
Dopo più di un'ora di costruzioni silenziose, quando abbiamo cominciato
a raccontarci le nostre case ed è arrivato il momento di andare
alla casetta di Silvia, siamo stati tutti colpiti dalla cura e dalla ricchezza
della composizione che aveva saputo fare la nostra ospite straniera. E'
stato allora che Silvia, sorprendendoci, ha cominciato a cantare in rumeno
e ci ha chiesto di imparare una sua canzone. Ascoltando la sua voce, che
quasi mai si era fatta sentire quando cantavamo le nostre canzoni di diverse
culture e tradizioni, mi sono molto commosso. L'episodio non è stato
certo risolutivo, ma quel giorno è successo qualcosa d'importante
che mi ha dato da riflettere. Perché Silvia osasse presentarsi come
propositiva agli altri, a tutti gli altri bambini, c'è stato bisogno
che una sua qualità, quella di giocare con la composizione degli
oggetti, fosse riconosciuta, e che questo avvenisse nel contesto della
costruzione della propria casa. Una costruzione che evidentemente aveva
attivato in lei il desiderio di condividere con altri una propria memoria
intima come quella che vive prodotta nel canto.
L'altro motivo per
cui mi sono commosso di fronte al canto della casetta di Silvia è
più personale. Da anni il centro della mia ricerca ruota attorno
al tema dell'abitare il pianeta e ho fondato e vivo in un centro di educazione
ambientale nella campagna di Amelia, in Umbria, che si chiama Casa-laboratorio
di Cenci. Lì sperimentiamo da venti anni percorsi ecologici, incontri
interculturali e intrecci tra arte ed educazione con laboratori rivolti
ad insegnanti e classi di tutte le età, fondati sulla residenzialità
e i tempi lunghi necessari all'incontro con se stessi, con la natura e
con gli altri. Sono dunque profondamente convinto che le scuole, per diventare
luoghi di elaborazione e creazione culturale, devono essere prima di tutto
abitate nel senso pieno del termine. Devono essere luoghi diversi e riconoscibili,
dove chi trascorre parti rilevanti del tempo della propria infanzia possa
sentire la propria presenza, lasciare tracce dei propri percorsi, riconoscersi.
Se andiamo a trovare qualcuno a casa, immediatamente il luogo ci racconta
una storia, spesso un intreccio di storie.
Perché le scuole
(in particolare le medie e superiori) sono così spesso anonime,
simili, intercambiabili? Credo che questo derivi da una generale mancanza
di ascolto, da una difficoltà che abbiamo, noi insegnanti, di essere
ricettivi e attenti alle differenze, alle particolarità, ai caratteri
di coloro a cui pretendiamo di insegnare. certo, ascoltare richiede tempo
e capacità di attesa. Richiede scelte, anche radicali, su cosa fare
e, soprattutto, non fare. La costruzione nella classe di un tessuto narrativo
in cui tutti, prima o poi, possano trovare il loro spazio è difficile.
Inoltre la pratica del conversare con i bambini, di proporgli esperienze
e questioni aperte, del lasciarli formulare ipotesi, di educarli al contraddittorio
e all'ascolto reciproco, è sapere artigiano che ben poche scuole
magistrali o università insegnano. Personalmente è nel Movimento
di Cooperazione Educativa che ho incontrato questa pratica. Eppure sono
convinto che è il sapere di cui più hanno bisogno bambini
e ragazzi perché è quello nel quale si può radicare
la difficilissima costruzione di una cultura della convivenza. A navigare
su internet si impara anche da soli mentre per metterci in gioco, per scoprire
chi siamo abbiamo bisogno del confronto con chi è altro da noi.
Sempre più ho l'impressione che, immersi in un mare di informazioni
e consumatori di quantità illimitate di giocattoli, i bambini siano
confinati a vivere in un mondo angusto. Per uscire da questa angustia affrontare
nuove difficoltà e accettare la fatica delle differenze può
esserci di aiuto, ricordandoci che il mondo non si limita ai privilegi
del nostro piccolo mondo. Può essere utile ricordare il cartello
"I care", appeso nella scuola di Barbiana. Ma è importante ricordare
anche che Lorenzo Milani, nella sua strenua battaglia per l'uguaglianza,
combattuta fondando una sua scuola, proponeva scelte e pratiche di una
radicalità difficilmente digeribile dal sentire comune dell'Italia
di oggi.