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Premessa

Più di cinque secoli fa, Petrarca scriveva al grammatico fiorentino Zenobio, per dissuaderlo dal dedicarsi ad una scuola di grammatica: Insegnino ai ragazzi coloro che non sono capaci di fare cose più importanti, coloro che hanno diligenza scrupolosa, mente troppo tarda, cervello molle, intelligenza senza voli, sangue gelido, corpo capace di sopportare la fatica, animo che disprezza la gloria, che desidera scarso guadagno, che non si preoccupa del disprezzo; (...) si devono occupare dei minori coloro che si vergognano di stare tra uomini, non riescono a vivere tra coetanei.
Da queste argomentazioni emerge, oltre a una serie di notazioni singolarmente attuali sulla situazione economica e sul prestigio sociale degli insegnanti, un elemento di lunga durata, di marca inequivocabilmente maschilista: l'idea che sia indegno di un uomo, e per di più di un intellettuale, abbassarsi a un'occupazione tradizionalmente femminile come l'occuparsi dei minori.
Ci sembra che l'attuale dibattito sulla figura dell'insegnante -mantenuto su un piano rigorosamente "neutro"- sia sotterraneamente influenzato dalla permanenza di questa inconsapevole idiosincrasia: la grande maggioranza degli esaltatori e degli oppositori della riforma sembra accomunata dall'intento di esorcizzare le componenti emotive, relazionali, corporee, sessuate dell'insegnamento, legate alla cura degli esseri umani più giovani, attraverso il ricorso a categorie meno imbarazzanti per il pensiero maschile, come quelle del rigore scientifico, della professionalità, della competenza tecnica, della capacità organizzativa. Così dai documenti ufficiali della riforma si desume che un buon insegnante deve essere prima di tutto un organizzatore, un programmatore, un tecnico della didattica. Quando si parla delle sue competenze, l'aggettivo "relazionale" compare solo nell'endiadi "relazionale-organizzativo", a significare che ciò che qualifica un docente non è tanto la disponibilità al dialogo con i bambini e le bambine che incontra ogni giorno in classe, quanto la capacità di intessere "sinergie" tra progetti, gruppi di lavoro, istituzioni.
A questa idea tecnicistica ed aziendalistica dell'insegnamento molti oppositori della riforma contrappongono la riproposta, più o meno esplicita e consapevole, della figura del Professore come "uomo di cultura", centrata su una concezione tradizionale della conoscenza come patrimonio di valori e saperi codificati dall'università, da preservare nella loro purezza disincarnata contro l'assalto della scuola e della società di massa. "Professore": cioè uomo, insegnante di liceo (possibilmente classico), autorevole dispensatore di un Sapere indiscusso, vicino per valori e aspirazioni al docente universitario più che agli (e specialmente alle) insegnanti dei gradi scolastici "inferiori".
A nostro parere queste due visioni dell'insegnante e dell'insegnamento non sono in grado di offrire una risposta positiva alla crisi epocale che sta investendo la scuola in ogni angolo del mondo occidentale, in conseguenza delle profonde trasformazioni sociali degli ultimi trent'anni. La posizione della donna nella società, anche per merito della scuola di massa, è cambiata; è cambiata la struttura della famiglia e del lavoro; sono cambiati gli orizzonti, la cultura, la domanda di senso delle nuove generazioni. Per fare un esempio, tra le nuove generazioni le ragazze molto spesso godono di un prestigio riconosciuto dai loro stessi compagni e portano un'originalità di essere che rischiamo di non vedere due volte, perché giovani e perché ragazze, se rimaniamo nella tradizione del pensiero neutro maschile.
Su questo sfondo il confronto fra mondo adulto e mondi giovanili si configura come un'alta e inedita scommessa culturale, che richiede una radicale ridefinizione delle categorie di pensiero dominanti sull'educazione e sulla scuola, a partire da un ribaltamento di prospettiva. Per affrontare con qualche probabilità di successo questa sfida, sono fondamentali atteggiamenti come la curiosità per gli esseri umani che si hanno di fronte, la disponibilità all'imprevisto, il gusto per la risoluzione creativa dei conflitti, il desiderio di giocare fino in fondo la propria soggettività: in altre parole proprio quel "prendersi cura" di creature più giovani che il pensiero dominante tende a svalutare in nome di un¹idea neutra e oggettivistica del sapere e dell'educazione (un "prendersi cura" che non esclude il conflitto, ed è tutt'uno con un appassionato scambio culturale: niente a che fare con un deresponsabilizzante maternage). Inutile dire che un¹impostazione di questo tipo mette in discussione le gerarchie tra sapere accademico e sapere didattico, tra università e scuola, tra scuola superiore e scuola di base. Di questo vogliamo discutere, a partire dalla consapevolezza che i cambiamenti risolutivi, nella scuola e nella società, avvengono quando c'è passione politica, quando c'è un'idea di fondo capace di dare parola alle modificazioni più significative della società e di scatenare in risposta energie intellettuali e pratiche, quando la nostra stessa umanità è coinvolta nelle situazioni di cambiamento, e ne va di me e di te in prima persona, di donne e uomini in carne e ossa.

Vita Cosentino e Guido Armellini dell'Autoriforma gentile
testo pubblicato da il manifesto del 28/04/2001 col titolo Di nessun ordine e grado

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