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L'orologio senza lancette e la dea Kali

di Cristina Mecenero

maestra elementare

Oggi Silvana, Chiara ed io non siamo già più in quello che ho chiamato il silenzio irresistibile, siamo qui con voi a raccontarvi quello che è stato il nostro percorso che abbiamo intrapreso da febbraio, da quando cioè ci siamo dette che saremmo salite in cattedra. Per passare dal silenzio irresistibile che ci avvolge alla parola, abbiamo scelto una strada che ha molto a che vedere con quello che di solito facciamo nel nostro mestiere, probabilmente abbiamo imparato a fare così proprio per il contatto continuato con le bambine e i bambini che abbiamo da ormai un po' di anni, siamo cioè partite dal corpo, dall'esserci, dallo stare in presenza, non dal piano di riflessione: ci siamo osservate al lavoro.
E' stato determinante scegliere il modo per arrivare al pensiero e alla parola.
Per me questa occasione , il convegno "le maestre e il professore" ha avuto il significato di cercare l'alfabeto per dire, insieme a Chiara e Silvana, a partire da una doppia fiducia: fiducia verso le nostre intuizioni, avventurandoci anche con piacere, curiosità e orgoglio nella lettura di ciò che siamo e che facciamo da maestre, e fiducia che le donne che ci ascolteranno proveranno a stare in un ascolto che tiene vive immagini e scene con cui tentiamo di dire, aprendole caso mai queste immagini, amplificandole ma non riducendole a tecniche.

Abbiamo sentito che il passaggio dal silenzio alla parola era da curare.
Così abbiamo deciso che NON ci saremmo sedute a tavolino inizialmente, ma avremmo fatto funzionare lo sguardo, il corpo, come quando siamo con le bambine e i bambini: ho proposto a Chiara e a Silvana di lasciarsi osservare da me e saremmo partite da lì. Sono andata ad osservare Chiara e Silvana, abbiamo fatto le empatiche e l'osservazione andrà avanti anche dopo questo incontro, toccherà a me essere guardata, e Silvana osserverà Chiara, Chiara osserverà Silvana.
E anche per parlarne poi abbiamo cercato immagini, scene, perché speriamo di riuscire a dire di più attraverso le immagini e le scene di quello che le parole che abbiamo raccolto finora possono dire.
Come mi sono sentita nella veste dell'osservatrice?
Innanzitutto curiosa, avevo proprio desiderio di stare lì a guardare, di avventurarmi con Silvana e Chiara in questo nuovo territorio del circolo di sguardi, uno sguardo di parola lo ha definito Silvana, guardare per scoprire, per guadagnare in consapevolezza, per svelare e per dare parole al nostro esserci lì come maestre tutte, intere, in un corpo a corpo con la "cosa", quella cosa che non si riesce a nominare, manca un alfabeto di cui fidarsi, e poi forse non si tratta proprio di una cosa definita e da insieme unitario, è più complessa.
Oltre a questo desiderio di esserci con lo sguardo puntato diretto su di loro, sentivo anche una profonda implicazione personale: mi sentivo responsabile per ciò che avrei visto, mi sentivo anche allarmata per un possibile contraccolpo che avrei potuto avere in relazione a ciò che ero io, al mio modo di essere maestra. Intuivo che molto si sarebbe giocato nell'atto della restituzione, da me a loro e da loro a me.
Senza entrare nei particolari, ma tratteggiando ciò che più mi è rimasto per ora da questa operazione di osservazione che, sottolineo, abbiamo realizzato in modo del tutto artigianale, libero, ci sono due cose che si sono appigliate dentro di me, dentro vissuti consapevoli e meno consapevoli del mio essere maestra:

- Sia Silvana che Chiara insegnano con il corpo, insegnano stando tra le bambine e i bambini, vicino a loro, a contatto con loro. Questa presenza del loro corpo di donne adulte che media contenuti, ansie, gioie, spaesamenti, agitazioni di bambine e bambini in un continuo calibrare avvicinamenti e allontanamenti di sguardi, di gesti, di parole, di presenza, a me è apparsa una cornice entro la quale guardare il resto che accadeva. Chiara è stata per le prime quattro ore in cui l'ho osservata, sempre a circolare fra loro, continuando a chinarsi, piegarsi, abbassarsi, appoggiando il suo corpo al loro e tenendoli spessissimo in quello che lei ha poi definito il centro del cerchio delle sue braccia, con un'immagine che io ho trovato efficace, vera e poetica. Anche Silvana ha continuato a mantenersi in questo movimento vicino, lontano e poi ancora vicino, e poi vicinissimo, considerate che nemmeno lei è mai stata seduta alla cattedra e quando sono entrata nella piccola piscina che hanno nella loro scuola l'ho trovata a terra sotto una doccia scrosciante a lavare Gabriele, il bambino con gravi deficit psicofisici, che, completamente nudo, le stava appoggiato addosso. Silvana gli massaggiava il corpo con un bagno schiuma e lui tranquillo lasciava fare. Le ho viste sedute ai banchi con loro, sedute a terra fa loro e mi sono sentita un po' in crisi perché io alla cattedra ci sto, poco, ma ci sto e lì ho visto che è possibile starci ancora meno. Questo loro stare con le bambine e i bambini per quattro ore filate, mentre lavorano con contenuti di storia o di italiano, era uno stare: tra, vicino, a contatto, dietro, sedute con, sedute a fianco, sedute per terra. A un certo punto due bambini della classe di Chiara hanno fatto per andare dove era lei, seduta tra altri due, ma l'hanno vista impegnata e allora uno ha detto all'altro: Dobbiamo aspettare al posto e se ne è andato a sedersi, mentre l'altro è rimasto nei pressi me già demordeva e infine si è seduto anche lui da dove era partito. E hanno aspettato.

- Nelle quattro ore con Silvana ho visto per tutto il tempo il lavoro svolgersi nel cerchio in una speciale sintonia tra le bambine, i bambini e lei: all'inizio della mattinata Silvana ha proposto il cerchio di parola, come loro lo chiamano, in cui a turno chi voleva leggeva un testo scritto precedentemente e le creature commentavano dicendo cosa era piaciuto o aveva colpito e perché. Poi a cerchi si sono messe/i loro spontaneamente per terra per fare un lavoro a piccoli gruppi e formavano tante piccole raggiere. Infine nel laboratorio di filastrocche erano tutte e tutti in cerchio su sedie già posizionate all'arrivo dei due gruppi, poi durante il momento dell'invenzione per iscritto fuori dal cerchio delle sedie e per chiudere ancora in cerchio: a recitare filastrocche create, donandole alla compagna o al compagno a cui si era pensato.

- Canto e discanto: è questa l'immagine con cui a posteriori ho visualizzato in una sintesi l'osservazione di due mattine e due pomeriggi di Silvana e Chiara al lavoro. Il discanto è un tipo di polifonia medioevale e consiste nell'aggiunta di una voce in moto contrario all'andamento uniforme del canto dato. Il canto lo conosciamo tutte, tutti: è l'esecuzione vocale di una melodia, qui lo visualizzo come un accordo tra più voci che hanno un fine comune: la trama di una canzone, il piacere di eseguirla insieme. Le ore con Chiara e Silvana dei due mercoledì mattina, una volta in classe di una, una volta in classe dell'altra, sono state quattro ore di sintonia tra loro e le creature delle loro classi. Sebbene Chiara sia apparsa a me piuttosto seria per tutto il tempo, ma qui c'entro io che sono una maestra che ride molto con le bambine e i bambini, tutti loro, maestra e creature, si sono regolati attraverso sguardi, sorrisi, carezze, avvicinamenti, baci: quando Victor, il compagno che era stato via per un mese, è arrivato, Chiara lo ha abbracciato e baciato, "Ciao mostro" gli ha detto, e lui la teneva nello sguardo con dolcezza e tenerezza. Chiara mi ha poi detto: "Sono stata per lo più seria perché ero molto concentrata". In effetti, ha mantenuto un livello di impegno altissimo e se avessimo contato, avremmo scoperto che aveva percorso molti chilometri nello spazio della sua aula per concludere con loro il lavoro di storia a coppie per cui ogni coppia doveva descrivere un momento di una visita a un museo riferendosi a una fotografia scattata appunto durante la visita. Chiara ha mantenuto un contatto continuo o con l'uno o con l'altro, o con chi lontano reclamava qualcosa, in un'intuizione profonda dei gesti, degli spostamenti, delle irrequietezze, e dedicandosi a loro , quando poi si sedeva vicino, con molta attenzione, rassicurando, chiedendo, facendosi spiegare, ascoltando, raddrizzando le pieghe storte che avevano preso certi testi…
Con Silvana durante la prima osservazione c'è stato il discanto: Silvana si sovrapponeva al loro moto di idee, di connessioni, si muoveva a partire da un'ansia, come ci siamo dette più tardi, spingeva e incalzava per arrivare in un punto, quello che nella sua testa era il punto, loro sgusciavano via da tutte le parti…Era in crisi, me l'aveva detto, eppure come le ho scritto successivamente in una lettera, per me era stato un regalo poterla vedere in un momento così: ero stata profondamente toccata dal fatto che si lasciasse guardare in un momento in cui diceva di non piacersi. I momenti in cui non ci si piace... ne incontro sempre durante un anno a scuola, sono ore alcune volte facili da ritarare in quanto hanno di stonato, altre volte sono giornate spruzzate qua e là, oppure sono settimane che in un qualsiasi mese prendono quel colore di grigio, sanno di nebbia, di un umido che non fa fiorire, almeno sembra, mentre ti si appiccica addosso, sono inodori, se non addirittura nauseanti. Momenti che conosco bene.
Giornate e settimane in cui mancano quelle piccole vibrazioni nell'anima che portano vita, senso di realtà, senso di contemporaneità – e intendo qui la contemporaneità degli eventi che attraversano le aule – e che invece portano un senso di rovescio, di opacità, di ottusità, non senti più la tua intelligenza all'opera, l'acuto è diventato grave, l'aquila è cieca.
Se poi penso in generale a me nella vita quotidiana fuori dalla scuola, nelle relazioni, penso a questo: ci vuole sempre un certo coraggio a mostrare i propri punti deboli, le proprie fragilità, debolezze, idiosincrasie. Ci vuole coraggio, ci vuole fiducia: coraggio dentro di sé e fiducia nell'altra. Io sono onorata che Silvana mi abbia permesso di vedere anche questo lato un po' sordo, che quel giorno era suo, ma che tante volte è stato mio. Quando c'è una stonatura che si ascolta e che non piace, quando si è giù dall'onda che sale, in una marea da deflusso, in una oscillazione che ci fa stare in basso, non siamo nel peggio, siamo, perché anche di queste discese sono fatte le nostre vite. Nel suo caso, mi sembra, per ora, tenendo conto di quello che ci siamo dette la sera dopo con Letizia Bianchi, tenendo conto di quello che le ha rimandato Chiara, che da lei ha imparato quello che appariva in quel momento estraneo al suo essere-fare, è dall'ansia che poteva essere utile partire: cos'era quello stare nell'ansia? Quando ci vestiamo d'ansia e non lo sappiamo nemmeno, cosa succede dentro di noi? E con loro? Quando premiamo, incalziamo, spingiamo dirigiamo, forziamo, qual è il motore che ci muove?
L'ansia è buona in sé, ci dice di qualcosa che preme, che non è nell'ordine vero dentro di noi, qualcosa che non ci corrisponde profondamente, nei gesti che si scelgono, nelle priorità che sembrano, può partire anche da altro da ciò a cui la colleghiamo immediatamente... sembrava legata al programma, ad un contenuto, la durata, e poi scopriamo che Andrea, un suo alunno, la preoccupa.............

Insieme abbiamo messo a fuoco alcuni punti:
- Il nesso materno-insegnante elementare: la madre mette in gioco di sé la sua umanità, il suo affetto, il suo amore, e, a partire dall'esperienza con lei, le bambine e i bambini che incontriamo a scuola chiedono e si aspettano che anche noi lo facciamo. Come dice Letizia Bianchi, il bambino e la bambina ti riconducono alla continuità con la madre. Sentirsi chiamate in causa: è questo quello che per noi ne consegue e di questa chiamata ad esserci fa parte anche la fatica che fare la maestra comporta. Noi diamo per scontata la fatica, al contrario di chi nella scuola, soprattutto nei gradi più alti dell'istruzione, permane per lo più in uno stato di indifferenza verso i più piccoli, o più giovani, con cui si ritrova ad avere a che fare. Per chi è indifferente la fatica è un aspetto intollerabile del proprio mestiere.
C'è un curioso ribaltamento, avvertito dalle madri, del rapporto tra la madre, appunto, e noi con le bambine e i bambini: con il linguaggio delle proporzioni la mamma sta a uno, due, a volte tre, mentre la maestra sta in un rapporto con 20, 25, 28 bambine, bambini e le mamme ci dicono: Quanta pazienza avete, io non potrei farlo, io non ce la farei. E' curioso perché noi riusciamo grazie a loro, eppure la continuità non viene avvertita, noi sembriamo sorgere dal nulla e siamo brave più di loro, sembra a loro, loro non riuscirebbero mai, dicono, in realtà noi non potremmo essere quello che siamo senza tenere loro e il nostro essere in continuità con loro come paesaggio d'insieme in cui avviene che la scuola elementare prenda la forma che ha: di una scuola in cui l'affetto gioca alla grande, in cui la tenerezza e il voler bene si mischiano alle risate, ai pianti, alle conquiste, alla crescita, all'apprendimento.

- I livelli diversi dell'essere che i bambini mettono in gioco: le bambine e i bambini passano velocemente e continuamente dall'affettivo all'emotivo, alla scoperta cognitiva, all'intuizione, al paiano fantastico, immaginativo. Stare al loro fianco in questo incessante entrare e uscire da piani così diversi di presenza, chiama in gioco il nostro sapere umano, il nostro sapere stare dentro le emozioni, i sentimenti, le intuizioni, le altalene, le capriole della mente e del cuore. Il nostro lavoro in classe è condizionato profondamente dal fatto che i bambini tendono a questa mobilità, a questi passaggi, transiti in piani d'essere difformi, per cui il loro movimento mentale rapido, a volte vulcanico si traduce in un passare all'atto destabilizzante per certi versi, se lo si guarda a partire da aspettative e prefigurazioni per così dire lineari.

- Non avere un forte sapere diciplinare, per via della preparazione-formazione che ci ha fornito il vecchio istituto magistrale ci ha lasciato la possibilità, che diviene per la forza delle cose necessità, di muoverci nel territorio di una fortunata ignoranza: siamo dovute andare ad attivare di più le conoscenze che avevamo guadagnato dall'esperienza di vita. Il non sapere ti spinge ad attivare, a cercare altro. E questa dimensione di ricerca permette di stare in un maggiore legame con noi stesse. E con le colleghe alle quali ci si rivolge per consigli e pareri, certo non con tutte, eppure le porte delle aule rimangono più frequentemente aperte.

- Cambiamenti: io ho fiducia nei loro cambiamenti, in questa possibilità che sempre si rinnova di assistere a grandi modifiche nell'essere delle bambine e dei bambini. L'ho imparato stando al loro fianco in questi anni perché ho assistito a profonde ristrutturazioni delle loro capacità. L'ho imparato vedendo bambine e bambini fare un corpo a corpo tremendo quando si trattava di iniziare a scrivere e a leggere, bambine e bambini persi nel foglio, persi nella confusione delle lettere, della mano da controllare, che poi dopo magari due o tre anni improvvisamente si sbloccano, pensano, scrivono, pensano, inventano…Così ho finito per credere molto in loro, le cose cambiano… La fiducia che sento si è posizionata nell'economia del mio pensiero, divenendo un punto prospettico dal quale guardare e pensare quanto man mano mi par di vedere capitare in loro e tra me e loro, da quando ho messo a fuoco i grandi cambiamenti miei interiori: da bambina ero triste, io sono una donna piena di entusiasmo, che ride molto!

- Siamo tuttologhe: è questo un dato di fatto, sebbene talvolta anche da parte nostra ci sia un ritrarsi di fronte a questa idea, soprattutto quando la si evoca come una richiesta mossa dai teorici dell'educazione. Ma se si rimane vicino all'esperienza di fare la maestra, essere tuttologhe è una condizione che va da sé per via proprio di ciò che siamo lì con le bambine e i bambini. Loro si continuano a muovere nell'anima, nello spazio e nel tempo e tu di fronte a tanto vitale apparire e scomparire di idee, di emozioni, di senso dalla vita non puoi fare altro che … essere a 360 gradi. Loro poi non sono sole, soli: per le maestre le altre che si incontrano in carne e ossa sono le madri, le si incontra di frequente dopo l'orario in classe, o in classe perché riescono a raggiungerci anche lì spesso e, anche se con meno frequenza e intensità, incontriamo il padre, insieme a certe nonne e nonni e sorelle. Saggezza e follia di queste presenze giocano, in certi periodi, dominando la scena: chiedono tantissimo in consigli, nel parare ansie e angosce sia per le figlie e i figli, sia per sè, nel cercare di riequilibrare aspettative smisurate e preoccupazioni di cui non si capisce il motore.

- Totale assorbimento nel nostro essere e stare a scuola: ci dimentichiamo completamente delle cose fuori, non riusciamo nemmeno a pensare alle persone amate, mentre è più facile che capiti che quando siamo con chi amiamo, pensiamo e parliamo delle bambine e dei bambini delle nostre classi, chi sta con noi li conosce per nome, segue gli sviluppi delle faccende che li riguardano….
Le portiamo persino dentro i sogni le nostre creature, dentro i pensieri prima di addormentarci, rischiando alcune volte di non prendere sonno, ripescando le immagini del giorno che si sta chiudendo, le cose dette, quelle non dette che se ti fossero venute in mente…: li teniamo dentro, nel corpo, e in questo sentiamo di agire e di essere a quel livello che solo con la parola materno sentiamo di chiamare, materno nel senso di quella dimensione dell'essere che le donne hanno come potenzialità…Teniamo dentro di noi, perché il mondo non contiene in sé, non tiene a priori, ma solo attraverso questa presenza molto concreta, altrimenti è un parlare astratto dell'infanzia quello che prende forma… C'è un'immagine che associamo a questo totale assorbimento, è quella dell'orologio senza lancette che simboleggia il nostro stare a scuola perché il tempo lì con loro è un tempo di vita, è un tempo che si espande al di là delle quattro o sei ore giornaliere che trascorriamo con loro, peraltro nessuna di noi se ne va mai suonata la campana, c'è sempre qualcosa da riordinare, qualche discorso da concludere con una bimba o un bimbo, qualcosa da comunicare alla collega….

La dea Kali: è questa un'immagine che nel gruppo di insegnanti della scuola di Silvana e Chiara è stata nominata, come quella dell'orologio, per dire dell'essere maestra elementare: avere tante teste, tante mani perché siamo in una tante figure per rispondere alle loro alte e continue richieste cerchiamo di essere pazienti, ma anche rigorose, affettuose, severe, comprensive, creative e pratiche, bilanciate verso di loro, verso la loro carica vitale, la loro forza vitale come la chiama Clara Bianchi di Milano, che ci salva dall'essere tecniche, dall'essere fredde, a patto di mantenere il desiderio di esserci, toccate da loro che ci cercano con lo sguardo, con le mani che si appoggiano sul nostro corpo, a volte tante nello stesso momento, come vi ha raccontato Chiara, oppure con tante voci che reclamano, che vogliono riconoscimento, attenzione, risposte……
Investiamo: chi investe come noi nell'infanzia, dopo la madre?
E' un inno alla vita che sentiamo si sprigiona in questo nostro stare vicino all'inizio, in questo nostro investire, contenere, dare e ricevere che ha a che fare col senso della vita…

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