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La via del silenzio

di Paola Bono

docente universitaria

Ha ragione Luisa. Queste due mezze giornate sono state un momento molto forte. Lei le chiama rivoluzionarie, io dico che in me hanno messo in movimento molte cose, a partire dall'immagine che Cristina ci chiedeva di formarci nella mente, e io ho provato. Ieri Cristina ha cominciato dicendo: "Spazzateci via". Io ci ho provato e lei diceva: "il baratro". Sì, ho avuto la sensazione del baratro. Questa è già stata una cosa molto importante perché su questa sensazione del baratro, alla quale io no so dare altra risposta se non dire: meno male che era solo uno sforzo d'immaginazione che mi hanno chiesto per un momento; pe-rò una risposta invece più riflettuta e anche più di cambiamento per me, la dovrò dare ed è qualcosa che mi è successo e su cui continuerò a pensare molto fortemente. Questo per me è il fatto rivoluzionario: una modificazione che mi è cominciata. Poi ci sono state tante cose, ed è difficilissimo metterle assieme. Altre cose che ho ritrovato in parte e in parte imparato e da imparare e da riattivare: ad esempio questo fatto di vivere come esperienza formativa per tutte e tutti ciò che invece viene spesso vissuto come impaccio o pericolo. Parlo delle differenza cui accennava anche Lorenzoni. Lui parlava del fatto che nella scuo-la media viene vista come impaccio o pericolo, come qualcosa da evitare, il fatto di avere dei bambini e bambine, dei ragazzini e ragazzine che sono diversi come capacità di ap-prendimento, diversi come portato di esperienza e di cultura e invece sia le maestre delle elementari, sia le maestre educatrici dell'asilo nido raccontavano proprio il contrario. Quale ricchezza sia, possa essere, quale elemento di formazione, di scoperta del mistero possa essere un bambino che ha il linguaggio dei segni o pochissimo quello verbale rispetto al resto della classe, farlo diventare un percorso di arricchimento per tutte e tutti. Allora questo è un'altra cosa (io insegno all'Università) su cui ragionare; è vero, si perde questo fatto di vedere l'impaccio come possibilità di ricchezza. Vedere, e questo più ba-nalmente, ma secondo me sono nello stesso ordine, vedere l'errore come momento di possibile scatto dell'apprendimento e così via. Questo mi porta al problema dei metodi e dei contenuti e a questa sorta di querelle sulle discipline, i saperi disciplinari e così via. Penso che ci possono essere dei saperi disciplinari indisciplinati e che in un certo senso questo sia. Non è tanto che il sapere deve essere non disciplinare, forse deve essere non disciplinato ed è differente. Cioè saper giocare con e tra le discipline attraverso un discorso dell'essere e dello stare, che forse preferisco, in questo momento, alla parola metodo. L'essere e lo stare. Questo si lega poi al discorso del guardarsi lavorare che è stata un'altra cosa molto significativa che ha circolato e che un po' ogni tanto avviene anche all'Università, ma, a mio sapere, abbastanza poco in realtà e per me fa parte della mia esperienza in modo molto specifico. Però non con questo allargamento circolare, ma con il fatto che da 25 anni insegno in due, quindi ci possiamo guardare e devo dire che dopo tanto tempo farlo sem-pre con la stessa persona, anche questo diventa un'abitudine e quasi non si scopre più niente. Allora davvero sarebbe importante moltiplicarlo. Comunque i saperi non disciplinati e non necessariamente non disciplinari, questo problema, appunto, del mettere in gioco le discipline, voglio continuare a giocare su queste due parole, per dire che a volte invece "disciplinare", ma in un altro senso, un sapere disciplinare può anche essere importante. Questo me l'ha fatto venire in mente il discorso sulla "voce e il silenzio" e di nuovo sul-l'"ascoltare". Siccome ci raccontiamo delle esperienze vi racconto questa che è un'espe-rienza di tempo fa e a cui sono stata reinvitata a pensare e a rimettere in attività quello che avevo imparato da quell'esperienza, perché anche le esperienze si dimenticano, si perdo-no, ed è stato quando insegnavo la lingua. Per molto tempo io ho insegnato proprio la lin-gua inglese all'Università e per un certo periodo usavo un metodo che si chiama "silent way" che è il metodo silenzioso, la via del silenzio, dove chi insegna deve parlare il meno possibile. Vi assicuro che è un'esperienza molto formativa, un metodo per cui non si può stare in cattedra, non si può stare fermi. C'è un fatto di uso della gestualità, dei movimenti e bisogna parlare il meno possibile. Sembra naturalmente un paradosso insegnare una lingua straniera parlando il meno pos-sibile. Richiede una grande attenzione a quello che succede. Non si può avere già deciso cosa si insegna quel giorno; sì, lo si pensa, ma tutto può cambiare completamente a se-condo di quello che succede e si tratta di predisporre degli strumenti, e il primo strumento è se stesse, per far trovare alle studenti e agli studenti i suoni, le regole, diciamo i movi-menti della lingua, dentro di sé, in quello che già sanno, nel rapporto con le altre e gli altri in quel momento là. Allora, a proposito dell'importanza del silenzio e dell'ascolto e, se vo-gliamo, anche del metodo, questo è proprio un metodo specifico e non è che sia l'unico e per forza il migliore per imparare la lingua, ve l'ho proposto perché appunto è la disposi-zione, è lo stare e l'essere e lì io dovevo disciplinare fortemente il mio sapere disciplinare che in questo caso era la lingua. Io so l'inglese piuttosto bene, però questo mio sapere lo dovevo disciplinare tantissimo. Non ero io che parlavo o in italiano spiegando le regole o in inglese per fargli sentire o imitare; no, lo dovevo tenere a freno. Il tenere a freno il mio sa-pere per vedere quello che avviene e andare dietro, sempre con consapevolezza, questa è un'altra cosa che ho sentito e che ho come ritrovato e capito che la devo imparare di nuovo e imparare ogni volta. Cambiando completamente il discorso, ma le cose tutte si legano, vorrei dire brevemente una cosa perché non è questo il punto di questi due giorni e non è neanche quello che mi preme di più. Volevo dire solo una piccola cosa sulla riforma universitaria che è stata va-riamente nominata più per accenni che altro e dire che certo in un altro modo, ma anche quella è una cosa che sta succedendo e una delle cose che stanno cambiando. Allora può non piacere, personalmente io la ritengo un'occasione, nel momento in cui avviene è qual-cosa che avviene dove bisogna stare e starci nel momento in cui avviene; non ci si può stare al negativo, bisogna capire se c'è qualcosa che si può far agire, qualcosa di positivo dove possiamo stare. Io queste possibilità le vedo: per esempio anche questi debiti e cre-diti, molto criticati sul piano del linguaggio, a me pare … insomma ci sono tanti modi di ve-derla. È vero che il linguaggio è sempre importante ed è sempre una spia, perché è una conven-zione, ma non è mai una convenzione irragionevole o irragionata, quindi è una spia e gli dobbiamo dare importanza. Ma si può parlare di crediti anche in un altro modo. Questi so-no crediti che lo studente acquisisce perché qualcosa le e gli è dovuto, ha dei crediti da ri-scuotere. Scusate, mettiamola anche così, so che sto facendo una forzatura, è solo per provare un po' a spostarci perché anche rispetto a questo fatto di come sono valutati que-sti crediti, a parte che "ore uomo" penso che sia una dizione specifica dell'Università di Ve-rona, io non l' ho trovata nei documenti che ho letto, quelli generali, e anche il modo in cui vengono decisi: questo fatto di far dichiarare agli studenti quanto tempo ci mettono non l' ho sentito mai dire da nessuna altra parte. Anzi, e mi fermo qui perché capisco che può diventare noioso questo discorso, mi sembra che l'idea dei crediti già pensati e che vanno ipotizzati prima, sia un modo per chi deve preparare un modulo, un'attività, una cosa, di mettere al centro della sua attenzione lo studente e la studente. Cioè di chiedersi: questa persona che tipo di investimento di energia, di lavoro, di intelligenza ci deve mettere? Co-sa posso chiedere credibilmente, evitando quello che succede e che mi sembra terribile: adesso ci sono i 20 esami, i 21 esami imponderabili, diversissimi tra di loro per carico, per contenuti, vaghi perché sono etichette a cui possono corrispondere le cose più diverse e chiusi allo stesso tempo perché sono delle etichette. Allora l'idea è che ci sia invece un'in-dividuazione di aree e la possibilità, se si vuole e ci si riesce, di incrociare le aree che hanno al loro interno un grande movimento e una grande diversificazione con la possibilità per le e gli studenti, di scegliere molto di più in queste diverse aree elementi da combinare all'interno di percorsi riconoscibili che abbiano anche un po' a che fare con la preparazione al lavoro. Io sento molte critiche, non sono state fatte qui, ma che sono per me un elemen-to di aristocrazia e di elitarismo culturale tremendo: il timore della licealizzazione dell'uni-versità, il timore dell'abbassamento culturale. Guardate che, almeno le persone che ho sentito io, e ripeto non qui, quando parlano di licealizzazione quello di cui stanno parlando è anche moltissimo il fatto della paura della relazione, il fatto che al liceo tu li vedi sempre, li vedi tutti i giorni, stanno lì e ci sono, li conosci. Mentre c'è questa idea che all'università è tutta un'altra cosa: loro vengono, vanno, vengono, tu gli insegni, parli, ascoltano. Quindi nella licealizzazione io ho colto anche questo e poi l'abbassamento del livello cultu-rale con l'inserimento di elementi di professionalità come se solo la cultura "alta" fosse cul-tura. Come se non ci fosse una cultura del saper fare preciso e c'è, in questo, un elemento aristocratico; allora questo tipo di opposizioni sono anche quello che mi fa pensare che ci può essere qualcosa da fare in questa riforma, che io ho colto fin dall'inizio come un'occa-sione, ma che comunque, è una delle cose che stanno succedendo. E, così come in pas-sato, abbiamo saputo trovare in questa università degli spazi, dei modi di far leva, di scar-dinare, di far giocare il nostro sapere, il nostro modo di essere, ci dobbiamo cominciare a porre il problema di trovarlo anche lì.

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