Lettera a una professoressa
riletta da una professoressa

di Vita Cosentino

BASTA CHE PARLI

Lettera a una professoressa è un testo che mi ha diviso l'anima: nel '68 è stato quasi una bibbia per me studentessa universitaria e poi giovane insegnante, l'ho successivamente rifiutato negli anni del femminismo e della Pedagogia della differenza, perché dedicava in tutto nove righe alle bambine e l'emblema della cattiva scuola era una professoressa.
La Lettera, pubblicata nel '67 dalla Libreria Editrice Fiorentina, è stata scritta da un autore collettivo: Scuola di barbiana, cioè dagli allievi assieme al loro maestro don Lorenzo Milani, in un piccolissimo paese toscano. Destinata a insegnanti e genitori, è organizzata in forma di brevi capitoletti, accompagnati da parole o frasi guida sul margine laterale, ed è divisa in due parti: La scuola dell'obbligo non può bocciare e Alle magistrali bocciate pure, ma...; segue una Documentazione costituita da repertori statistici sulle ripetenze dal '54 al '65.

IL PUNTO DI VISTA DEI POVERI

Il grande fascino che la Lettera ancora esercita su di me è un fascino simbolico, perché mostra la presa di coscienza e di parola di un mondo - il mondo dei poveri - che fino a quel momento era muto. In quanto incapace di una parola propria il mondo dei poveri era raccontato da chi sapeva parlare, con giudizi, misure, punti di vista che pesavano sui giovani contadini e operai con la forza dei luoghi comuni e del pregiudizio. In quel momento storico l'essere senza parola toglieva ai poveri la possibilità di esserci nella società nonostante il diritto di voto.
Negli anni '50, in Italia esisteva una povertà che oggi si stenta a immaginare. Nel '54 Barbiana era una frazione montana minuscola, nel Mugello, sul fianco nord del monte Giovi; quando don Milani vi venne trasferito perché era un parroco scomodo e vi apr" la sua scuola, in tutto vi abitavano 39 famiglie di contadini poverissimi che non avevano né la luce elettrica, né l'acqua. Ma Barbiana in quegli anni non era un'eccezione: non erano solo poche famiglie di montanari ad essere povere ma intere classi sociali, i contadini, gli operai erano poveri.
Vivevano in forti ristrettezze materiali e tutti gli scritti di don Milani ce ne danno immagini vivide: bambini che per letto avevano il tavolo da cucina, ragazzi di 14 anni che lavoravano di notte.
Di questa situazione di sofferenze materiali, Lettera a una professoressa coglie e mette a fuoco l'aspetto soggettivo, che si presenta come una malattia simbolica che pesa più della miseria. La Lettera parla prima di tutto della timidezza contadina. E' la timidezza del ragazzo contadino che a "scuola striscia lungo le pareti", della sua mamma che si "intimidisce davanti a un modulo di telegramma", del suo babbo che "osserva ascolta ma non parla" (pag. 9). Nel testo la timidezza contadina non è un aspetto del carattere, è un fatto politico. Don Milani lo ritiene importante tanto da scrivere in una lettera a Elena Brambilla: "Io so che la tragedia dei contadini è tutta nella solitudine, che tutti i loro mali sono nati dal piccolo numero dei loro incontri umani".
Nei ragazzi di Barbiana, nel rapporto assiduo con il loro maestro, si fa strada la consapevolezza che l'esclusione dalla cultura, l'isolamento, la mancanza di incontri, il non saper parlare l'italiano costituivano una barriera che metteva le classi povere in uno stato di inferiorità sociale e umana e che per loro la scuola creata da don Milani significava uscirne. Così di fronte al disquisire degli esperti che criticano i metodi pedagogici della scuola di Barbiana perché i ragazzi non fanno sport, prende la parola Lucio: "Lucio che aveva 36 mucche nella stalla disse 'la scuola sarà sempre meglio della merda'. Questa frase va scolpita sulla porta delle vostre scuole. Milioni di ragazzi contadini sono pronti a sottoscriverla." (pag. 13)
Lettera ad una professoressa è molto di più di un testo sulla scuola. Sono i ragazzi poveri che prendono la parola. La Lettera è da leggere come un'operazione simbolica con cui don Milani dà voce a chi non ce l'ha e del punto di vista dei poveri fa un punto di vista sul mondo. Al cuore del testo è il capovolgimento della gerarchia dei valori, dei criteri di giudizio, del senso delle cose.
Le bocciature nella scuola dell'obbligo sono il "fatto" su cui avviene il capovolgimento di prospettiva: "Voi dite di aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri ma Dio non fa questi dispetti ai poveri. E' più facile che i dispettosi siate voi". (pag. 60)
I Gianni, i ragazzi poveri, che la scuola considera cretini e svogliati, si fanno avanti nella Lettera e si propongono come "la parte migliore dell'umanità". Si pongono come portatori di una cultura, che è un dono, che porta "un po' di vita nell'arido dei vostri libri scritti da gente che ha letto solo libri". (pag. 115)
Nel rovesciamento simbolico operato nella Lettera sono invece i Pierini, i ragazzi ricchi, che "a 6 anni parlano come un libro stampato", e che sono già segnati anche loro, ma dal "marchio della razza pregiata", a pagar caro il loro privilegio. Pierino sì non ha perso classi, anzi è un anno avanti, ma è "deformato dalla specializzazione, dai libri, dal contatto con gente tutta uguale". Pierino non è timido, anzi è disinvolto con la professoressa, ma non è per niente maturo, si è solo "allenato ad affrontare adulti". Pierino nel capovolgimento del punto di vista risulta simbolicamente mancante e ai Gianni fa quasi compassione, tanto che a un certo punto lo invitano ad abbandonare il suo mondo e unirsi a loro. (pag. 96)

IL TESTO NEL '68 E LA SUA CRITICA AL CLASSISMO

Il passaggio ulteriore che i ragazzi di Barbiana fanno fare a chi legge è comprendere che se le cose sono invece percepite a scuola in modo differente -bravo e intelligente Pierino, cretino e svogliato Gianni- è perché la cultura che vi si insegna è quella che appartiene alla sola classe privilegiata. "Tutta la cultura è costruita così. Come se il mondo foste voi". I ragazzi di Barbiana sostengono che la scuola è di classe.
Lo svelamento della natura classista della cultura è quello che più ha determinato la popolarità del testo tra noi giovani del '68. Ricordo che era diventato slogan da gridare nelle manifestazioni. Lettera a una professoressa portava le ragioni dei ragazzi poveri con tanta forza che le abbiamo fatte nostre, dava anche a noi del movimento studentesco delle università delle ragioni per dire l'antipatia che nutrivamo per la scuola che avevamo frequentato. Ne avevamo sentito il peso, la noia, il fastidio e non ne sapevamo il perché. Noi studentesse poi, da poco entrate in massa nell'istruzione superiore, che era un essere ammesse a una cultura che non ci comprendeva e che cancellava il femminile, avevamo ben più forti ragioni nostre da esprimere, ma in quegli anni tutto si riassunse, o si semplificò, nella funzione selettiva e classista della scuola. Soprattutto l'insegnamento del latino nella scuola dell'obbligo era sotto accusa perché, dicevamo allora, tagliava fuori chi in casa non aveva il sostegno di un ambiente colto.
Quando venne scritta la Lettera c'era stata da pochi anni ('62) l'attuazione della media unificata che aveva abolito la divisione tra avviamento e scuola media e prolungato l'obbligo a 14 anni. Il latino era diventato facoltativo, ma evidentemente in troppi luoghi la scuola dell'obbligo continuava a impartire una cultura di stampo gentiliano, con modalità che ne facevano un insieme di nozioni e di atteggiamenti per riprodurre la classe dominante e mantenere la funzione di criterio di inclusione/esclusione sociale.
Rileggendo il testo mi sono chiesta quale sia stata la radice della critica al classismo, che lo percorre tutto e che in un passo si rispecchia in un fine lavoro sul significato stesso delle parole classismo, anticlassismo, interclassismo: "La mattina e d'inverno la scuola la farà lo Stato. E seguiterà a farla 'interclassista' (attenzione ai vocaboli: il classismo dei ricchi si chiama interclassismo). Nel pomeriggio e d'estate bisogna che la faccia qualcun altro e che la faccia anticlassista (attenzione ai vocaboli: l'anticlassismo i ricchi lo chiamano classismo)." (pag. 89) Per passi del genere Don Milani, soprattutto dalla stampa di destra, è stato accusato di essere un prete rosso, di essere in combutta con i comunisti, ma niente è più lontano da lui del comunismo. Non è un prete operaio, come ce ne sono stati in quegli anni, anzi si rincresceva delle possibili strumentalizzazioni da parte dei comunisti, possibili soprattutto per l'incomprensione del suo operato da parte della gerarchia ecclesiastica che gli poneva a ogni piŽ sospinto dei veti a cui lui -ribelle obbedientissimo- immediatamente si sottoponeva.
La sua era una intransigente applicazione del vangelo, che aveva conosciuto e abbracciato già grande, era una ricerca di giustizia universale. Del vangelo di Luca applicava alla lettera: "Preparate la via del Signore, fate retti i suoi sentieri. Ogni valle sarà colmata, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie torte diventeranno una via dritta e le vie scabrose vie piane; e ogni uomo vedrà la salvezza in Dio". E' sempre il vangelo ad ispirargli atteggiamenti di classismo all'incontrario che lui sosteneva essere da sempre della chiesa: "Anche alla distribuzione della minestra ai poveri i ricchi non sono ammessi. Il classismo in questo senso non è dunque una novità per la chiesa". Crede solo - così dice - ai 10 comandamenti e in nome del vangelo rifiuta un'idea di amore universale. Si rifiutava per es. di "perder tempo" con persone che avendo letto i suoi libri lo andavano a trovare a Barbiana e così lo motivava: "Se rispondessi loro con pazienza e se credessi al comandamento che essi continuamente mi rinfacciano e cioè che bisogna amare tutti, mi ridurrei in pochi giorni un prete da salotto cioè da cenacolo mistico-intellettual-ascetico e smetterei di essere quello che sono cioè un parroco di montagna che non vede al di là dei suoi parrocchiani".
Don Milani non vuol essere un prete da salotto che usa la parola tra pochi intellettuali, ma ha accettato una situazione che non aveva neanche scelto e di quello che gli era stato imposto è riuscito a fare la sua scelta. La segue con rigore, rimanendo tra i suoi parrocchiani poveri e in questo esserci in mezzo a loro agisce anche con la parola.
Dalla mia frequentazione del femminismo della differenza so che le operazioni simboliche sono sì affidate alla parola capace di ribaltare i significati, ma ciò che risulta decisivo è la capacità di inventare delle pratiche di modificazione di sé, di modificazione degli atteggiamenti e delle relazioni private e sociali. Questo mi permette di dire che quegli atteggiamenti rigorosi con cui Don Milani sostanziava il suo classismo all'incontrario e che gli hanno creato più di un nemico, sono da leggere come pratiche, e infatti sono per me il principale segnale che la sua sia stata un'operazione simbolica.
Per esempio, alle conferenze del venerd" che organizzava a Calenzano intellettuali e studenti dovevano stare in fondo e zitti, solo gli operai avevano la parola. In una lettera a Mario Lodi , Don Milani spiega la sua intenzione: "Quando ho davanti uno studente o un cittadino faccio di tutto per umiliarlo, levargli un po' di sicurezza di sé. Quando ho un contadino o un operaio cerco proprio il contrario: di dargli un po' di sicurezza di sé". Don Milani fugava la malattia simbolica della timidezza dei suoi ragazzi con pratiche robuste mirate ad essere quotidianamente "inezioni di superbia ai poveri e iniezioni di umiltà ai ricchi".
Per modificare i comportamenti delle classi subalterne, per un certo periodo pensò anche di scrivere un "galateo sborghesito" per far acquisire "l'abitudine a forme esterne coerenti con il nostro modo di pensare". Poi non ne fece niente ma alla sua sensibilità strideva troppo vedere i sindacalisti operai della CISL o della CGIL mettersi la cravatta per incontrare i padroni e cedergli il passo nell'attraversare una porta oppure vedere il popolo rincorrere la borghesia nello sfarzo delle feste di matrimonio.
Per amore di verità dico che le ragazze e le donne non potevano neppure partecipare alle conferenze del venerd" a Calenzano, ma questo, sembra, per esplicito divieto del proposto. Non può bastare, però, il divieto a spiegare: un uomo giusto non si adatta a condizione ingiuste e don Milani l'ha mostrato con tutta la sua vita. In questo caso invece rinuncia e accetta una palese ingiustizia, e questo è una spia di qualcos'altro e va interrogato più a fondo.

UN'OPERAZIONE SIMBOLICA A META'

Ho cercato di mostrare come Lettera a una professoressa abbia nella sua radice più intima e evangelica una ricerca di giustizia universale, ideale che ho condiviso negli anni '70, ma su cui non sono più d'accordo. Con gli anni mi sono resa conto che proprio rispetto a questo ideale la mia esperienza umana femminile mi ha fatto segnare un distacco: me ne sono discostata quando sono diventata consapevole che questa ricerca ha agito come mascheramento della contraddizione di sesso. Ancora oggi tornare a rileggere la Lettera e trovarvi in tutto nove righe dedicate alle ragazze, mi fa vedere ciò che le manca. Manca l'altra storia, quella, combattuta, dell'istruzione femminile. Lo sguardo che vuole essere universale, si mostra portatore di una giustizia a metà, unilaterale, solo per i maschi poveri.
Certo, oggi è facile sostenere questa mia posizione perché poco dopo la Lettera è scoppiato il femminismo ed è diventato agevole conoscere la storia dell'istruzione femminile, grazie soprattutto a donne che si sono dedicate a indagarla, farla emergere e a tenerla ben presente in mente nel ragionare.
Io stessa, leggendo questi studi, sono arrivata alla conclusione che l'istruzione femminile superiore sia stato un esito imprevisto della scuola di massa e ho avuto l'impressione di un amore o di un'aspirazione femminile all'istruzione che percorre tutte le epoche e viene ricacciata più volte indietro.
La media unica era stata in realtà pensata per dare una possibilità di istruzione ai ragazzi delle classi popolari, proprio per i Gianni di cui parla la Lettera, ma è capitato che ragazze di ogni ceto sociale ne abbiano approfittato per il loro desiderio di imparare e di inserirsi nel lavoro con un titolo di studio. La scuola di massa senza tanto clamore ha posto fine a un'esclusione sottilmente misogina basata sul pregiudizio che le donne non dovessero acquisire il sapere. La versione popolare di questo pregiudizio compare anche nel breve frammento della Lettera dedicato alle bambine, e riferito ai genitori: "Credono che una donna possa vivere anche con un cervello di gallina" (pag. 16), pregiudizio che insieme al matrimonio, ha pesato per secoli su donne di tutte le classi sociali, ad esclusione di poche "donne eccezionali".
Il giudizio sulle professoresse che emerge dalla Lettera è perlomeno ingeneroso, se non animato da disprezzo misogino: mamme a mezzo servizio, mogliettine incoscienti di uomini di sinistra. C'è in don Milani anche un intento esplicitamente provocatorio. In una lettera a Gaetano Arfé chiede di controllare se nel dibattito parlamentare sia sfuggita a un ministro qualche parola dichiaratamente classista e lo scopo è "far rabbia a quella professoressa che ha bocciato credendo di far opera di giustizia e incosciente di essere sicario del padrone."
L'acredine antifemminile non permette a don Milani di vedere come invece esista un nesso tra scuola "dei padroni", giustizia che vi si opera, e il suo essere una struttura pensata da maschi per maschi. Il problema della professoressa è piuttosto quello di aver fatto come Malcom X quando si scoloriva e si lisciava i capelli per assomigliare a un bianco. Si è mimetizzata aderendo a una cultura che non la comprendeva e ne ha assunto le modalità dominanti. D'altra parte mi è chiarissimo che una professoressa che si fosse scolorita i capelli per assomigliare a don Milani, come hanno fatto in seguito tante insegnanti di sinistra, a lui sarebbe andata bene, a me no.
Dunque il mio problema di fondo è rendere parlante la libertà femminile, facendo tramontare il mimetismo, che è un prezzo che in molte abbiamo inconsapevolmente pagato per la nostra emancipazione, e da cui deriva spesso una mancanza di capacità di critica radicale, un conformismo che asfissia ancora le nostre scuole, anche se oggi non ce n'è ragione.
Oggi che le donne vanno a scuola, anzi la scuola stessa si è femminilizzata, il punto di vista dei poveri dice troppo poco, per una più profonda contraddizione che si è aperta.
Come ai tempi di Don Milani l'entrata dei poveri nella scuola media unificata ha fatto vedere ai ragazzi di Barbiana quanto era elitaria la cultura che vi si insegnava, così la storia a lieto fine dell'istruzione femminile fa oggi vedere che più che una scuola senz'anima, come dice spesso Umberto Galimberti, ci troviamo di fronte a una scuola pensata e rappresentata con un'anima solo maschile.
Quest'altra antica storia di pregiudizio che non è raccontata nella Lettera a una professoressa è gravida di conseguenze che ci riguardano da vicino nella scuola. Il discredito nei confronti del femminile ha fatto da ponte per formulare criteri epistemologici e educativi che ancora oggi stanno a fondamento della nostra scuola e fanno apparire la scuola e la cultura che insegniamo mancante e fasulla. La scuola nella sua struttura profonda ancora si fonda su una razionalità che invece è razionalismo, su un rigore che in realtà è mutilazione di tante parti dell'esperienza umana, su una disciplina - che adesso è completamente crollata - che si ispirava a modelli militareschi e non teneva conto delle capacità femminili di tener assieme una pluralità di persone. Sono criteri che si basano sull'assenza del femminile e non possono essere radicalmente messi in discussione se non si attua un riequilibrio del punto di vista, assumendo fino in fondo la presenza dei due sessi nel pensare l'istruzione e l'educazione.

LA SCUOLA DELL'INVENZIONE

La precisazione di questi aspetti mi permette di capire e dire meglio che cosa posso (possiamo) imparare da Lettera a una professoressa, e da che cosa voglio prendere decisamente le distanze, mettendomi così in condizione di ragionare alla luce di una consapevolezza femminile.
A riconsiderare oggi le questioni poste dai ragazzi di Barbiana, mi sono accorta che la Lettera è rimasta sostanzialmente incompresa e che nella scuola italiana sono entrati principalmente gli aspetti più meccanici e caduchi. Per es., negli anni '70 il non bocciare, invece di essere una sfida per riuscire ad insegnare agli ultimi, è diventato l'appiattimento del 6 politico e l'idea di dare più scuola ai Gianni perché i Pierini ce l'hanno già a casa 24 ore su 24, è diventata un'enfasi sul tempo scuola che in alcuni casi ha creato orari peggiori di quelli delle fabbriche fordiste, oppure ha dato vita a doposcuola oratoriali o di sinistra che non fanno che prolungare l'agonia di una scuola insensata che dà compiti su compiti. Anche l'argomento forte, perché inusitato e trasgressivo, di lavorare su repertori statistici per documentare la "piramide scolastica", larga alla base (le elementari) e via via più stretta per l'espulsione dei poveri con "la strage dei vecchi", cioè dei ripetenti che hanno il lavoro minorile in nero a portata di mano, è diventato il prevalere di criteri quantitativi nel ragionare di scuola. L'essenziale invece di quella scuola è stata la capacità di dare forza simbolica ai poveri. Don Milani conosceva il segreto della soggettività, della passione, infatti sosteneva che "Barbiana non è esportabile" e quando gli amici insistevano perché scrivesse il metodo, i programmi, la tecnica didattica, rispondeva: "sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola". Da quella piccola scuola di montagna viene un insegnamento per la grande capacità di don Milani di inventare pratiche, alcune sono straordinarie. Nascono da tutto il modo di essere di don Lorenzo, dall'amore che ha per i suoi ragazzi, nel testamento dice: "Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto sul suo conto".
La lezione da trarne consiste non nel rifare quelle stesse cose, ma nel ricominciare a inventare pratiche, per le esigenze del nostro tempo che non può più prescindere dalla differenza femminile. Le pratiche che più mi piacciono nella Lettera hanno tutte a che fare con la sua idea di una cultura viva e che serve alla vita. Per esempio il viaggio all'estero che è l'esame vero: "Nella nostra scuola l'andare all'estero equivale ai vostri esami. Ma è esame e scuola insieme. Si prova la cultura al vaglio della vita. In conclusione è un esame più severo dei vostri, ma almeno non si perde tempo sulle cose morte". (pag. 101) Oppure la lettura dei giornali per 500 ore l'anno o l'idea, scaturita dalla necessità, di mettere i più grandi a insegnare ai più piccoli.

LA SCOMMESSA SULLA LINGUA

Dalla Lettera arriva ai nostri giorni una lezione più profonda da riconsiderare: tutte le invenzioni di don Milani ruotano attorno al perno centrale del simbolico, che fa da bussola, orienta la scelta di cosa fare o non fare nella sua scuola, e il simbolico stesso - imparare a parlare - è messo a tema come insegnamento principale da impartire. Ciò di cui i poveri hanno bisogno è la lingua, è l'italiano. Dicono nel testo: "noi che non si parla e s'ha bisogno di lingua d'oggi e non di ieri, di lingua e non di specializzazioni". (pag. 96)
Negli anni 50/60 la società italiana era molto più nettamente di oggi divisa in classi sociali rigide e uno dei aspetti era la contraddizione linguistica che vedeva le classi privilegiate usare correntemente l'italiano e le classi povere parlare e intendere prevalentemente il dialetto. Sono anni in cui attorno alla questione della lingua c'è un grande dibattito intellettuale a cui partecipa anche la gente comune. Ho cercato di farmene un'idea attraverso Le belle bandiere, la raccolta delle lettere a Pasolini che teneva una rubrica su Vie Nuove in quegli stessi anni. Molte lettere riguardano questa questione e sono scritte da minatori, professoresse, casalinghe, giovani operai.
Sono gli anni dell'"impegno", della letteratura neorealista, che cerca anche soluzioni linguistiche creative sul rapporto lingua nazionale-dialetti, come si vede dagli stessi romanzi di Pasolini o nella Storia di Elsa Morante. Sono gli anni di riscoperta delle tradizioni popolari, di cui basta ricordare la minuziosa ricerca di Italo Calvino che porterà alla pubblicazione di Fiabe italiane. C'è una scommessa politica sulla lingua che è -lo dico con le parole di Pasolini- "una strada di rinnovamento dell'italiano dal basso, di italianizzazione dell'Italia attraverso la presenza rivoluzionaria del popolo, e attraverso un'idea gramscianamente nazional-popolare della letteratura."
Don Milani fa parte di questa temperie culturale con una sua caratterizzazione specifica: don Milani è un inventore di lingua. E' a mio parere questa la soluzione che dà alla complessa questione del rapporto tra la lingua, povera, lessicalmente scorretta, frammista al dialetto dei suoi allievi ( scrivevano "ito" per "andato", "enno" per "sono", "unguanno" per "quest'anno") e la lingua nazionale colta. Fa un'opzione decisa per l'italiano, ma come lingua viva. Ne fa una lingua asciutta, scarna, di una chiarezza cristallina. Le regole dello scrivere in Lettera a una professoressa sono: "Aver qualcosa di importante da dire e che sia utile a tutti o a molti. Sapere a chi si scrive.
Raccogliere tutto quello che serve. Trovare una logica su cui ordinarlo. Eliminare ogni parola che non serve. Eliminare ogni parola che non usiamo parlando. Non porsi limiti di tempo." (pag. 20) La Lettera stessa ne è un esempio. Le frasi sono brevi o brevissime, poche le subordinate. Lo stile è antiretorico. Non ci sono parole di difficile comprensione. Il testo una volta finito è stato fatto leggere a contadini e operai e ogni parola che risultava troppo difficile è stata sostituita con una di uso più corrente. La lingua ne esce completamente rivoluzionata.
In quegli anni io ero una giovane studentessa e ricordo che invece a scuola, nell'insegnamento dell'italiano, si privilegiava in prevalenza una prosa enfatica, di cui il modello era il periodare ciceroniano e lo scrivere era spesso un esercizio fine a se stesso, se non peggio un addestramento a fingere, sostenendo idee scopiazzate per compiacere l'insegnante. Nella Lettera temi come "Parlano le carrozze ferroviarie" vengono definiti "gli scritti dei vostri signorini esperti nel frigger aria e nel rifrigger luoghi comuni". (pag. 21)
Dalle testimonianze dei suoi allievi emerge con vivezza come le lezioni di don Milani fossero essenzialmente centrate sulla lingua. Adesso, un quindicinale di impegno cristiano, in quegli anni riportò varie testimonianze di suoi allievi tra cui quella di Benito Ferrini. Il suo allievo a S.Donato descrive bene come all'inizio loro stessi non capissero "la vecchia idea fissa di don Milani, cioè che a noi poveri ci manca solo l'italiano" e chiedevano invece per es. disegno tecnico se erano meccanici, o stenografia per trovare più facilmente lavoro. Ma inevitabilmente anche se la lezione cominciava con matematica finiva sempre che ci si fermava su una parola, ci si stava su un'ora buona, sviscerandola, scomponendola e ricomponendola, "finché s'era fatta mezzanotte e le penne erano ancora da intingere e i quaderni bianchi e la radice quadrata vi prometto che si farà domani".
I ragazzi di Barbiana attraverso la padronanza della lingua ponevano una questione di sovranità: la lingua fa uguali, la lingua dà dignità, il dominio della parola dà potere alle classi subalterne nella neonata democrazia. "Perché è solo la lingua che fa uguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l'espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli." e poche righe oltre "Tentiamo invece di educare i ragazzi a più ambizione. Diventare sovrani! Altro che medico o ingegnere." (pag. 96)
Per don Milani la questione della lingua è legata alla ricerca di uguaglianza, di una maggiore giustizia sociale attraverso il potere della parola. Lo esprime chiaramente in una lettera al direttore del Mattino pubblicata nel '56 con il titolo Giovani di montagna e giovani di città. La parola è "la chiave fatata che apre ogni porta" e non permette solo di capire il libro sul motore per la patente o il giornale del proprio partito, soprattutto permette di capire quello che si dicono il dottore e il farmacista sulla piazza del paese quando discutono "a voce alta pieni di boria" e di rendersi conto che "esprimono un pensiero che non vale poi tanto quanto pareva ieri". Il suo ideale sociale è portare i poveri attraverso il dominio della parola ad essere a pari dei ricchi. Infatti la questione è impadronirsi della lingua perché dà potere. Don Milani fa l'esempio di un medico che quando parla con un ingegnere o un avvocato discute da pari a pari, "ma questo non perché ne sappia quanto loro di ingegneria o di diritto. Parla da pari a pari perché ha in comune con loro il dominio della parola".

LA CONTRADDIZIONE LINGUISTICA OGGI

Sono passati più di quarant'anni dai tempi della scuola di Barbiana e la contraddizione linguistica in Italia, forse in tutto l'occidente, è ancora più viva, e si presenta con tutt'altra configurazione. Oggi si è aperta una crisi del linguaggio che ha relativamente a che fare con il conoscere molte e poche parole, con il saper usare il registro colto o eslusivamente quello comune. Il cambiamento in corso investe profondamente il come parliamo, le strutture stesse del discorso e le forme della comunicazione.
Io insegno lettere nella scuola media - sono proprio nel posto di quella professoressa contro cui don Milani si scagliava - e quest'anno ho preso una nuova prima. All'inizio sono rimasta sconcertata dal fatto che non rispondevano alle comunicazioni considerate più ovvie a scuola, come "prendete il quaderno di italiano", oppure "domani portate il libro di storia". Non succedeva niente neppure quando dicevo: "E' ora di andare a casa!". Alla prima impressione i ragazzini e le ragazzine di oggi appaiono come individualità chiuse all'esterno, mute e sorde. Non ascoltano, non comunicano.
Se a questa situazione si guarda con gli occhi rivolti all'indietro, facendo il confronto con il passato, la si può ritenere pericolosamente inquietante e temere per il futuro. Lo fanno alcuni autorevoli studiosi, tra cui Raffaele Simone, per il quale i giovani sono "poco articolati" in quanto non strutturano più i discorsi, non accedono alla teoria, e per il futuro teme la formazione di una vera e propria "casta" dal linguaggio strutturato e per il resto "una massa di senza parola" (Unità 17 marzo 98). Così, purtroppo la stanno guardando anche alcune mie colleghe, che però rimangono con un grande senso di frustrazione per non riuscire a insegnare. Ma non a caso le bocciature sono in forte ripresa nella scuola dell'obbligo.
E' vero, le nuove generazioni danno l'impressione di essere afasiche, ma, detto questo, il problema è sentirsi chiamata(o) dentro la contraddizione. Aprirsi alla questione che pongono. Sono le persone giovani o è la lingua e la comunicazione ad essere inadeguate? E' una generazione persa alla lingua o mutezza e sordità sono sintomo di qualcosa di più profondo che è andato in crisi, sintomo di un cambiamento che investe anche me in prima persona?
E' comprensibile che la contraddizione linguistica appaia molto evidente con l'inizio della scuola media, perché le medie segnano un passaggio di ampie proporzioni. Mentre alle maestre è ancora riconosciuta la possibilità di rimanere vicine alla lingua materna e di insegnare intrecciando conoscenza e affetti, alle medie, e sempre di più alle superiori, si indeboliscono questi legami. Al posto della relazione è la campanella a scandire, spesso freneticamente, l'alternarsi delle conoscenze da apprendere, si moltiplicano gli insegnamenti e ognuno si autonobilita con il tecnicismo e lo specialismo. Ogni giorno crescono i muri che separano linguaggi tecnico-specialistici e linguaggi della vita quotidiana e degli affetti. La cultura non arriva a "toccare" le loro giovani vite e assieme alle parole sensate spariscono i loro giovani corpi e la loro possibilità di esserci nel discorso con il proprio sentire. Sara in un testo ha usato la parola labirinto per descrivere la sua condizione di studentessa. Frastornati, confuse, i ragazzini e le ragazzine sentono oscuramente di non esserci nei sentieri di parole tracciati dalle generazioni precedenti e di stare da un'altra parte. Sentono che si chiede loro di adeguarsi a qualcosa, e non sanno neppure a che cosa.
Io guardo con più fiducia ai cambiamenti in corso e penso che aprano anche impreviste possibilità perché nel mio rapporto quotidiano con adolescenti, constato il loro grande bisogno di esserci nel mondo. Percepisco anche quanto sia importante per loro esserci con un sentire proprio, con una parola diversa, per esempio, da quella della mia generazione del '68.
Di recente parecchi segnali hanno consolidato questa mia intuizione che tra le ultime generazioni, nell'apparente afasia, sia in atto una ricerca di altre forme espressive, di altri modi di comunicare e di stare assieme. Provengono da ragazzi e ragazze più grandi, delle superiori e dell'università, che stanno imprimendo al loro esserci un segno diverso dai movimenti degli anni '70. Prendo dall'Unità del 24 novembre 2001 le impressioni di Piero Sansonetti, che ha rivolto domande a ragazze e ragazzi del liceo Tasso di Roma. E' stato occupato ed è finito sul giornale per uno sciopero della fame, attuato per poter parlare con la ministra Moratti. "L'impressione che ho avuto è che siano meno informati sulla politica e sulle ideologie ma (forse proprio per questo) molto più liberi di testa, più "pensanti", come dimostra il fatto che hanno idee assai diverse tra loro su alcune questioni fondamentali. E usano pochi luoghi comuni e questa è una sorpresa.".
Il cambiamento che posso cominciare a fare io è lasciarmi sorprendere da ciò che capita e dare fiducia alle parole di chi prova a raccontare la sua sorpresa invece di riassumere gli avvenimenti nella sua ottica consolidata. Ho ben presente in mente l'infinità di sondaggi e di analisi sociologiche di adulti che descrivevano queste ultime generazioni come indifferenti, interessate solo al denaro, alla carriera e alla prestanza fisica. Analisi tutte smentite dall'improvvisa nascita in Italia, in occasione della riunione del G8 a Genova nel luglio del 2001, di un movimento, ampio e multicolore, fatto in prevalenza di giovani, e capace di parlare all'intera società di "un altro mondo possibile".

RELAZIONI SENZA NOME

Nei decenni che ci separano da don Milani ci sono stati radicali cambiamenti, tra cui uno che si rischia di perdere di vista o d'interpretare in maniera riduttiva: il cambiamento del rapporto tra i sessi, per l'avvenimento della libertà femminile.
Con la libertà femminile è cambiato, sta profondamente cambiando, il modo di concepire il rapporto con l'altro, che era (è) in primis la donna. Prima l'uno acquistava valore basandosi sul disvalore dell'altro. Ora il rapporto non si riesce più a ordinare pacificamente nel senso superiore/inferiore, che sfocia nella gerarchia, o nel siamo pari, che sfocia nella competizione. Ora l'altro sta in un luogo simbolico non collocato in nessuno schema determinato per cui spesso sta a ingombrare il nostro interno, a ingigantire le nostre paure. Ora la relazione di alterità è diventata più vera e difficile, per cui la tentazione di omologare l'altro è sempre più forte. Ora è possibile un senso libero della differenza.
La lingua rispecchia tutte le contraddizioni di questo cambiamento. La potenza del linguaggio è straordinaria: non dice solo quello che dice, ma dice anche in quale posizione si mette chi parla, quale relazione sta instaurando con l'altro e con il mondo. La crisi, il collasso dell'ordine simbolico tradizionale è l", nel livello profondo del linguaggio.
Ogni momento sulle parole nasce un problema linguistico e politico. Così per esempio dopo la tragedia dell'11 settembre a New York, alla comunità internazionale è apparso quasi indecente che il capo del governo italiano abbia parlato di "superiorità della civiltà occidentale rispetto a quella islamica" e lo ha invitato immediatamente a ritrattare. Tre secoli di colonialismo avevano fatto una bandiera di frasi di quel tipo, ma oggi non è più possibile.
Simili frasi esprimevano il sistema relazionale che organizzava la comunicazione in uno stretto intreccio tra linguaggio e potere: quell'intreccio mortifero è andato in crisi. Le nuove generazioni sono lo specchio migliore di questo cambiamento, ma io stessa sono in grado di vederlo in quanto ne faccio parte per la mia storia di donna che ha vissuto in prima persona con altre donne il cambiamento del rapporto tra i sessi nella società.
Nel mondo pubblico e privato sono venuti avanti altri tipi di rapporti, maturati tra donne, e altri tipi di rapporto tra donna e uomo. Sono allo stato nascente e mancano le parole che li descrivano. In Comporre una vita Mary Caterine Bateson scrive: "Quando cerco una parola che definisca il mio rapporto con le donne descritte in questo libro, sento il bisogno di un termine che affermi sia la collegialità sia il fatto che il processo è reso possibile dalle differenze che ci caratterizzano. Ma il dizionario mi tradisce, negandomi un termine che affermi al tempo stesso la simmetria e la complementarità. Questo vuoto nel linguaggio corrisponde a un vuoto nella cultura. Siamo ricche di parole che descrivono rapporti simmetrici, dall'amicone, al rivale, al collega. Siamo anche ricchi di parole che descrivono rapporti fortemente asimmetrici, molti dei quali implicano una gerarchia e hanno curiose sfumature che rimandano a rapporti di sfruttamento e di dominanza. Ma una parola che corrisponda ai miei bisogni non riesco a trovarla".
A causa della libertà femminile nella società vivono e si diffondono sempre più, soprattutto tra le persone giovani, relazioni ancora senza nome che aprono altri giochi.
Delle relazioni senza nome che anche io per prima sto vivendo qualcosa posso dire: si reggono sulla fiducia negli scambi umani. Attingono e fanno rivivere nella vita adulta un'attribuzione di fiducia che ciascuna, ciascuno ha vissuto nella prima infanzia, quando ha imparato a parlare, nei confronti della madre: "Da lei abbiamo imparato a parlare e lei allora ha garantito per la lingua e la sua capacità di dire quello che è". Per la creatura piccola è la fiducia nella madre che fa sì che "casa" possa dire molto di tutto quello che significa la casa, e che ci sia, in generale, l'aspettativa di una corrispondenza tra parole (segni arbitrari) e realtà.
La relazione con la madre, idealizzata e non valorizzata nella cultura occidentale, è di tipo speciale: tiene assieme emozioni elementari e linguaggio e si presenta in una relazione comunicativa che non è certamente pari, anzi è di squilibrio massimo. Pure non può essere catalogata come superiore/inferiore in quanto si regge su un elemento amoroso che viene liberamente messo in circolo.

LA LINGUA COME STRADA DI LIBERTA'

Leggendo le annate della rubrica di Pasolini su Vie Nuove ho anche visto come negli anni '60 quella scommessa politica e culturale di "italianizzazione dell'italiano dal basso" venga sostanzialmente sconfitta. Pasolini segnala più volte che si sta creando sì un italiano nazionale ma orientato non dalle classi popolari, bensì dalla classe industriale del nord. Con le aziende di Milano e Torino come "nuove corti", ha "come principio unificatore il principio 'segnaletico' più che comunicativo del linguaggio tecnologico.".
Questa tendenza col passare del tempo è diventata ancora più accentuata e pervasiva, in un regime sempre più metaforico in cui l'azienda stessa è diventata una metafora universale, applicabile indifferentemente a scuole, università, ospedali, ferrovie, amministrazioni comunali, parlamenti. Nella scuola per es. con i processi riformatori di questi ultimi anni è entrato un linguaggio pieno di metafore economicistiche (cliente, risorse umane, funzioni obiettivo, griglie, indicatori, criteri ecc.) che rende quasi indicibile l'esperienza di insegnare. D'altra parte l'innovazione tecnologica procede con tale rapidità che è esperienza comune e quotidiana a qualunque età essere in una situazione di continuo apprendimento di nomi segnaletici, vuoi per usare il nuovo modello di ferro da stiro o di cellulare, vuoi per imparare ad usare internet, il computer e gli altri aggeggi elettronici che riempono le nostre case. In questo tipo di apprendimento la comunicazione si riduce a scambi veloci e formali. Io certe volte mi sento quasi ridotta a una scimmia ammaestrata: imparo parole che mi addestrano a compiere procedure di cui in realtà non capisco il senso.
Tutte e tutti soffriamo di un grave impoverimento del linguaggio, di una banalizzazione degli scambi umani, di una frantumazione linguistica in linguaggi tecnici e specialistici che producono perdita di senso.
Se l'afasia è la malattia simbolica del nostro tempo, essa colpisce soprattutto le persone più giovani: la lingua che è ciò che ci fa umani, viene percepita come una sorta di strumento inservibile per entrare in rapporto con il mondo. Le persone giovani sono, però, anche quelle che più fortemente portano il bisogno di esserci nel discorso con la loro soggettività, di potersi esprimere in modo significativo, in quanto ai loro occhi è già tramontato l'intreccio tra linguaggio e relazioni di potere. Non capiscono neppure la logica del comando, del vincere o perdere con le parole, non hanno neppure idea che ci si può mimetizzare dietro parole altrui e fingere di parlare. Non si adeguano a queste logiche ormai in crisi e se ne stanno fuori, senza parola.
La lingua - e il suo insegnamento nelle scuole - mi sembra un vero e proprio campo di battaglia. E' di nuovo attualissima una scommessa politica sulla lingua. A differenza dei tempi di don Milani, nel padroneggiare la parola non è più in gioco la sovranità come uguale, o il potere in democrazia, di cui parlano i ragazzi di Barbiana; in gioco oggi è la libertà, trovare la strada di una parola che non si uniformi nel già pensato, nel già detto, ma sappia rimanere presso di sé, intessi un andirivieni tra parola ed esperienza, e sappia collocarsi in uno scambio più libero con gli altri e le altre.
Ora che sono saltati gli automatismi delle relazioni complementari e simmetriche, nella frantumazione e nell'alienazione linguistica che caratterizza la nostra epoca, avanza la possibilità di pratiche linguistiche più libere. E' come dire reimparare a parlare.
Il primo passo è la rinuncia a dire tutto, per dire "qualcosa", che faccia corpo vivo con la propria vita, con la propria esperienza, con il proprio sentire emozionale. E per il resto affidarsi alla potenza della lingua negli scambi umani. Comunicare è una danza complicata che si svolge nel tempo, fatta non solo di parole. Gesti, risposte mancate, spiazzamenti, ripensamenti, avvicinamenti e allontanamenti, ambiguità, intoppo che fanno capire, conflitti, sono solo alcuni degli infiniti passi di relazioni più libere.
In questo passaggio che avviene dentro a ciascuna, ciascuno di noi, la mutezza, il silenzio è una risorsa, come invita a considerare Luisa Muraro nell'Allegoria della lingua materna. Veniamo dal silenzio, dice, ciascuno, ciascuna ha cominciato essendo una creatura piccola che non sapeva parlare e attivava tutto il suo essere per poter comunicare. Il silenzio è "la segreta risorsa di tutti i discorsi e di tutte le parole, attingibile grazie alla prima lingua, quella con cui abbiamo imparato a parlare". Abbiamo per leva la grande risorsa della lingua materna che è sempre pronta a riaprirsi, rimane vicina alla "sostanza corporea" finché è viva.
Anche a scuola è possibile andare a un rapporto più libero tra la lingua che parliamo e le emozioni che viviamo e aprire per noi e per i nostri studenti e le nostre studentesse spazi di libertà e di soggettività nel discorso. Posso cominciare io a cambiare il modo di entrare in comunicazione con loro. Se sono consapevole che le frasi che pronuncio o che scrivo dicono qualcosa di chi parla, questo aspetto è, in relazione, una possibilità illimitata di cambiamento del proprio modo di parlare. Offre anche la possibilità di dialogare su quei tratti che emergono dal parlare e dallo scrivere dei ragazzi e delle ragazze. Se è tramontata in me l'idea del comando e del controllo, l'aver a cuore la relazione con l'altro, fa da mediazione interiore per cambiare lo sguardo sulla realtà. Si apre una ricerca di parole che non umilino, non chiudano in gabbie ma creino le circostanze per lasciar esprimere una parola propria.

LA SOGGETTIVITA' RELAZIONALE

Lettera a una professoressa è scritta in prima persona. Nella premessa si legge: "A prima vista sembra scritta da un ragazzo solo. Invece gli autori siamo otto ragazzi. Altri nostri compagni che sono a lavorare ci hanno aiutato la domenica." L'arte dello scrivere per i ragazzi di Barbiana coincide con la "scrittura collettiva". Procedono così: tengono sempre in tasca un notes e appena viene un'idea prendono un appunto su un foglietto scritto da una parte sola. Poi mettono tutti i foglietti sul tavolo, scartano i doppioni e fanno dei monti (capitoli) e monticelli (paragrafi) e nasce una schema, provano varie stesure con forbici e colla e poi comincia la gara per togliere parole difficili, bugie, frasi troppo lunghe. Infine fanno leggere il testo a varie persone e si modifica ancora fino alla stesura definitiva.
L'idea della scrittura collettiva nasce a don Milani dall'incontro con Mario Lodi che andò a trovarlo a Barbiana e infatti il primo tentativo fu proprio una lettera indirizzata ai suoi allievi. Nella lettera di accompagnamento don Milani racconta gli effetti straordinari della scrittura collettiva in quanto il testo definitivo supera per maturità quella dei singoli partecipanti. Ne scaturisce un testo che è "al livello culturale dell'orecchio di questi ragazzi, non a livello della loro penna o della loro bocca". Capisco che con questo tipo di scrittura don Milani ottiene un potenziamento e un rafforzamento di soggettività, attraverso un processo per cui chi parla perde la sua differenza individuale a favore della costruzione di un io collettivo che è più della somma dei singoli io. Capisco anche che il prodotto finale interessa a don Milani più di quello che accade nello scambio tra i soggetti singoli.
Pur ritenendola una bella pratica di scrittura, dal punto di vista simbolico questa operazione mi suscita forti perplessità e mi sono domandata perché sentano il bisogno di un rafforzamento enfatico del soggetto. In una lettera a Giorgio Pecorini proprio sulla pubblicazione della Lettera si trova un possibile movente: vincere in una sorta di competizione linguistica con le classi privilegiate. Don Milani scrive: "Tutti sanno scrivere purché lo vogliano. E' solo un problema di non pigrizia. Così la classe operaia saprà scrivere meglio di quella borghese. E' per questo che io ho speso la mia vita e non per farmi incensare dai borghesi come uno di loro.". In effetti, se questo è il movente, solo un soggetto rafforzato è in grado di competere e vincere nella gara con la classe borghese. Una simile gara è una delle molle profonde nella stesura del testo, se ne sente l'eco anche in un'altra lettera di don Milani a due ragazzi all'estero in cui racconta dell'incontro con gli statistici per la parte che riguarda le bocciature e si compiace dello spettacolo di Tranquillo -così era soprannominato il ragazzo- che "si mangia gli statistici come panini".
Da questi indizi capisco che sottostanno alla Lettera tipi di relazioni caratteristici del rapporto intramaschile, dove c'è sempre una rivalità in gioco, che è la traduzione della rivalità simbolica tra padre e figlio, dove la stessa idea del tempo fa parte di una catena in cui si prevale sia nei riguardi di chi viene prima che di chi viene dopo.
Don Milani la interpreta nel modo più generoso. E' stato infatti spesso accusato di essere autoritario con i suoi ragazzi, ma forse questo non è vero; è vero piuttosto che ha una concezione del rapporto pedagogico fortemente caratterizzata dai tratti del rapporto tra maschi. In un'intervista di Neera Fallaci al prof. Agostino Ammannati sul tema dell'autoritarismo, il professore, che fu l'aiutante numero uno del priore nella scuola di Barbiana, ricorda che don Milani diceva: "Il fine ultimo di ogni scuola è tirar su dei figlioli più grandi di lei, così grandi che la possano deridere."
Leggendo questa frase e rileggendo la Lettera sento una più profonda assenza delle ragazze dalla scuola di Barbiana, anche se tre ragazze la frequentarono, ed è un'assenza simbolica. E' un orizzonte da cui manca quasi tutto quello che ho cercato per me nell'ordine simbolico della madre: la riconoscenza, la contiguità, il sorriso.
Io - e sono una donna - mi trovo molto a disagio nelle gare per la supremazia. Il mio desiderio più vivo è poter esserci nel mondo e nella parola con la mia singolarità, ma non da sola, dentro a una trama di relazioni, che vivono dentro e fuori di me e che mi orientano. Così come è la vita stessa di noi esseri umani, una specie che non sopravvive e non impara a parlare se privata di rapporti nella primissima infanzia.
Sulla scelta di scrivere con un io collettivo misuro la distanza più grande che mi separa oggi da don Milani, per le implicazioni che ne vedo nella formazione della soggettività di persone più giovani. La soggettività è un processo relazionale e avviene nel linguaggio. L'io, il soggetto del discorso, si costituisce in relazione a un tu, è intrinsecamente relazionale, non è un soggetto collettivo e neppure solipsistico. L'altro, l'altra, anche se creatura piccola, è uno sconosciuto, una sconosciuta irriducibile a sé e alla propria esperienza. Quello che più mi preme quando sono in classe con ragazzi e ragazze è ritessere il filo tra ciò che sono e le infinite risorse della lingua, perché ne diventino abitanti ciascuna, ciascuno con il suo proprio nome. Poter parlare, tenendo conto di ciò che ci muove dentro, dei fatti, del mondo, delle parole altrui, dona una libertà che non può essere portata via.
Le ragazze e i ragazzi di oggi crescono e imparano a comunicare in un mondo occidentale basato sull'avere più che sull'essere, in cui sembra che la soddisfazione maggiore sia possedere oggetti, consumare oggetti. Nell'occidente privilegiato manteniamo uno stile di vita ricco al prezzo altissimo della guerra endemica, della povertà di intere popolazioni, di malattie che non si debellano, della mortalità infantile nel terzo mondo. Dopo la tragedia delle torri newyorchesi alla mia coscienza diventa ogni giorno più insostenibile la consapevolezza di questo squilibrio e sono alla ricerca di qualcosa che abbia la forza e la potenza del denaro. E interrogando la mia vita e il mio cuore trovo che solo la parola ha questa forza. Esserci nel discorso è un modo grande di stare al mondo, un modo che è anche alla portata di tutti, non ha un prezzo, ma soddisfa più dell'ultimo inarrivabile oggetto sfornato dall'industria di consumo. Esserci nel discorso è un modo di comprendere meglio sé e il mondo, e scoprire che siamo differenti e scoprire perfino che ciò che ci fa differenti è anche il meglio che abbiamo da darci.